La sentenza di Eraclea

Le sentenze dei tribunali sono passaggi cruciali. Per gli imputati, ovviamente, che ne va della loro vita. Perché possono coronare, o meno, una lunga attività repressiva. E perché costituiscono comunque dei momenti importanti, anche se non decisivi, nella comprensione degli avvenimenti.

Questa sentenza riguarda una parte della lettura giudiziaria che fornì la Procura di Venezia di vent’anni di storia criminale nel Veneto orientale, e, sostanzialmente, la conferma. Anzi, quello che è emerso, e si è riusciti ad apprendere, durante questo procedimento e sta emergendo nel dibattimento parallelo di rito ordinario, è un intensificazione impressionante di quanto intuito, con anni di ritardo, dalla Procura. Il dato è la fitta configurazione di un’area grigia di complicità e collusioni nel mondo imprenditoriale, politico, bancario, delle professioni e delle forze dell’ordine di quel territorio.

Graziano Teso, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, di quell’area grigia era punto nevralgico. L’attribuzione del reato “concorso esterno” non tragga in inganno, Teso è esterno ad un’organizzazione mafiosa che la normativa antimafia costringe ad individuare perché i fatti “indossino” le fattispecie di reato – l’associazione a delinquere di stampo mafioso -, ma ad una lettura autonoma dalle esigenze giudiziarie il punto nevralgico rimane l’area grigia di cui Teso non è per nulla “esterno”, ma cardine.

La prima figura politica di rilievo implicata in fatti di mafia in Veneto, per lunghi anni sindaco, l’unica figura istituzionale di riferimento nel maremoto delle istituzioni repubblicane di questo paese. Una lacerazione che dovrà portare ad una riflessione sul ruolo della politica nella nostra regione.

Così come il gruppo capeggiato da Luciano Donadio (che è imputato nel procedimento ordinario) di quell’area grigia era parte integrante, l’alimentava e se ne alimentava per la conduzione dei suoi numerosi business. Parliamoci chiaro: senza la reciproca partnership con i “colletti bianchi” del territorio, Donadio si sarebbe limitato alla gestione di un giro di prostituzione sul litorale e allo smercio di un po’ di droga. Punto.

Le mafie non sono solo un fenomeno criminale, altrimenti si leggerebbe di loro solamente in polverosi libri di storia sulla Sicilia dell’ottocento. Sono piuttosto un impasto originale di politica, economia e società. Per questo le sentenze non bastano a dar conto del loro agire. E la risposta penale non basta ad arginare la loro operatività. La sfera d’azione delle mafie mira al mondo di sotto, quello del crimine, come a quello ufficiale, degli affari legali e delle istituzioni. La loro abilità sta nel fornire servizi, alimentare connessioni, connettere i mondi, molto meno distanti di quanto ci immaginiamo.

Il gruppo di Donadio, e la sua rete di connivenze, si è costituito ed inserito in un contesto dove, oltre ai gruppi criminali autoctoni, erano presenti pratiche diffuse di illegalità legate ad un preciso modello di crescita economica del territorio e ad un ruolo di sudditanza da parte della politica rispetto agli interessi particolari.

“Gli anni ’90 sono gli anni di attuazione piena degli interventi progettati e lottizzati dai piani regolatori negli anni precedenti – scrive con precisione riguardo al Veneto orientale la studiosa Claudia Mantovan – ai quali però in questi anni non mancano continue e sostanziali deroghe e variazioni, che vanno spesso a incidere in modo corposo sulle cubature disponibili per l’edificazione, o sui cambi di destinazione d’uso dei terreni che ne moltiplicano così enormemente il valore, rendendoli importanti monete di scambio nelle logiche politico economiche, ed affaristiche, che vanno a definire le scelte di governo del territorio”.

Non si può comprendere il successo di Donadio se non consideriamo questo contesto. I gruppi criminali agiscono all’interno di un sistema relazionale e come per tutti i fenomeni sociali “cause ed effetti si rigenerano continuamente in un circuito di reciproco rafforzamento – scrive Umberto Santino -, così la mafia è insieme prodotto di una società e riproduttrice di essa”.

La sentenza di oggi colpisce una parte consistente del gruppo di Donadio e il suo principale referente politico, ma non c’è nessun motivo – senza un cambio di passo nel modello di sviluppo e nel modo di concepire lo sviluppo – perché la vasta area grigia di collusioni e complicità non si riorganizzi e consolidi anche senza Donadio e senza la mafia. E il contrasto al malaffare, a quel punto, non passerebbe per le aule dei tribunali, ma per quelle dei consigli comunali e regionali e in tutti i luoghi dove si aggreghi consenso e conflitto. Per la politica, insomma.

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