Maniero: il male addomesticato

Se era uno di noi tanto cattivo non poteva essere. Detta spiccia nasce un po’ così la percezione nostrana di Felice Maniero e della sua organizzazione. Lui e i suoi accoliti, non estranei ai modi, alle consuetudini e – soprattutto – alla lingua locali, non vengono caricati dell’aura criminale della mafia vera e propria. Nell’immaginario locale, il criminale veneto finisce per essere addomesticato, sulla base di una rappresentazione legata a una presunta generosità e simpatia del boss della Riviera del Brenta, il cui carattere estroverso e seduttivo finisce per oscurare le sue responsabilità e i crimini commessi insieme dalla sua organizzazione. Addomesticando le gesta di quella organizzazione ci scordiamo il male disseminato con le armi e, non lo dimentichiamo, con lo spaccio di eroina, sostanza con cui l’accattivante Maniero – con agghiacciante managerialità – ha inondato le piazze venete. Frutto di questo addomesticamento è la narrazione diffusa secondo cui la mala del Brenta abbia funzionato da argine alle mafie vere e proprie. Si tratta in realtà di una pericolosa trappola conoscitiva: l’idea, cioè, che solo le organizzazioni criminali provenienti dall’esterno, al contrario di quelle autoctone, possano davvero rappresentare un pericolo.

Chi sono i veri cattivi? Tagliandola con l’accetta possiamo dire che dinnanzi al male ci sono due strade: si può cercare di compiere uno sforzo di comprensione oppure si cerca di proiettarlo all’esterno, scindendo completamente gli aspetti della realtà in tutto buono o tutto cattivo. Nel secondo caso il sud, e la Calabria in particolare si prestano bene: evocano ancora, dal punto di vista dell’immaginario del cittadino settentrionale, un giacimento della violenza primitiva, il santuario del potere brutale della ‘ndrangheta, irradiando un sorta di esotismo del male. Nel podcast prodotto dal Centro di documentazione e d’inchiesta sulla criminalità organizzata in Veneto (Cidv), “Da banditi a mafiosi: la storia della Mala del Brenta vista dalla parte di chi l’ha combattuta” – importante lavoro del giornalista Antonio Massariolo – si cerca di imboccare l’altra strada. La storia dell’organizzazione di Maniero viene letta nell’intreccio con l’accumulazione originaria di questo territorio, il suo veloce e spericolato arricchimento, la tolleranza di cui hanno goduto le imprese della banda e la cecità degli organi di contrasto, con la luminosa eccezione del compianto Francesco Saverio Pavone. Si affronta quindi uno sforzo di comprensione accettando che il male non è contenuto in un luogo altro, ma si intreccia, banalizzandosi, alla quotidianità, al semplice incedere della nostra vita collettiva, è tra noi ed è dentro di noi. Più che demoniaco il male è superficiale, insegna Hannah Arendt, concepisce la vita come una cosa poco profonda, poco preziosa e per nulla singolare, alla fin fine irrilevante. Cioè sopprimibile: con una siringa, così come con una pistola.

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