Eraclea: come uscire dal tunnel

Perché prima o poi i mafiosi escono dalla galera. Se non hanno commesso crimini gravissimi, escono, come è giusto che sia. Magari in attesa della sentenza, come nel caso di Luciano Donadio e gli altri imputati accusati di far parte di un gruppo di camorra di stanza ad Eraclea, o perché la pena l’hanno scontata. Il problema è capire se il tempo dell’assenza è servito alla comunità da dove sono stati, temporaneamente, “estratti” i “cattivi”, se ha elaborato adeguatamente quello che è accaduto, le responsabilità – non le colpe – più o meno diffuse, le possibili collusioni e – soprattutto e innanzitutto – se ci sono le energie per cambiare rotta. Perché la “soluzione” repressiva inscritta nel paradigma giudiziario colpa – castigo non lenisce tutti i mali.

Ad Eraclea in questi anni dopo l’arresto dei vertici dell’amministrazione comunale e del presunto gruppo di camorra, tutto è rimasto come congelato, la nuova amministrazione, e con lei la maggioranza dei cittadini, hanno confidato nell’opera della magistratura e nel tempo che passando scolorisce lo stigma di luogo di mafia che la cittadina veneta si era vista appiccicare addosso. In realtà è bastato un fuoco d’artificio per tornare al punto di partenza, prendere coscienza che i “cattivi” non se n’erano andati del tutto e che, soprattutto, l’acqua in cui avevano agevolmente nuotato era sempre quella.

“Estrarre” i “cattivi” non basta quando questi sono solo una parte di una rete di collusioni che spazia dall’amministrazione all’imprenditoria, al mondo delle professioni, come sempre accade. Come ci ricorda lo studioso Federico Esposito “la camorra non è interpretabile come un’organizzazione altra rispetto alla società […] Essa è piuttosto individuabile nel contesto di riferimento come fenomeno di classi dirigenti proprio perché correlata alle forme del potere e ai processi di regolazione e trasformazione economica”. I presunti camorristi ad Eraclea hanno partecipato ad un gioco più grande, in cui loro, i “cattivi”, hanno solo fatto la loro parte. In realtà per uscirne davvero servirebbe cambiare gioco.

È accaduto a Chelsea, cittadina vicino a Boston, una ventina d’anni fa, quando ancora era un buco nero di corruzione e inefficienza e dove la polizia spalleggiava il racket e i pompieri, lautamente foraggiati, appiccicavano gli incendi per permettere alle ditte in fallimento di incassare i soldi delle assicurazioni. Non era servito a nulla condannare per corruzione quattro sindaci e metà consiglio comunale. È servito invece, come ci racconta l’attivista Susan Podziba nel bel libro Chelsea Story, la tenacia di un piccolo gruppo di cittadini che ha promosso la riscrittura dello statuto comunale e delineato una nuova identità e sviluppo della città fondato sulle potenzialità – capabilities – dei cittadini e delle cittadine. È così che gli abitanti di Chelsea hanno ripreso in mano i destini della loro cittadina e sconfitto lobbies e consorterie. Saranno anche storie e contesti differenti, ma la suggestione ci sta tutta.

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