Banche e mattoni

E finalmente qualcuno l’ha detto (a proposito della crisi delle due banche popolari venete): “Forse c’è stato un ritardo nel capire la portata dei contraccolpi della crisi. Penso in particolare a quello che ha riguardato il settore immobiliare che da noi è stata più forte rispetto ad altri territori alla luce del boom commerciale, industriale e residenziale dal quale si arrivava”. A fine dicembre nel corso di un’intervista, Gilberto Muraro, ex rettore dell’università patavina e presidente della cassa di risparmio del Veneto, accenna alla relazione tra cementificazione – pardon, “sviluppo immobiliare” – e crisi bancarie.

“Investimento fa rima con cemento” scriveva nel 2011 Luca Martinelli nel suo libro “Le conseguenze del cemento” (qui): il finanziamento delle operazioni immobiliari, spiegava Martinelli, risulta come “impiego” e  quindi la banca – nell’aspettativa di una rendita legata a valori immobiliari fittizzi – nel bilancio indicherà l’operazione con il segno più. L’immobiliare – le grandi operazioni immobiliari – hanno sempre tirato nel settore bancario anche quando gli immobili rimanevano invenduti e domanda non se ne scorgeva.

Tra i tre maggiori beneficiari della banca popolare vicentina troviamo (lo leggiamo qui) i pugliesi “Fusillo”, con 50 milioni erogati dalla banca vicentina a favore delle controllate “Fimco” e “Maiora” che hanno tra nel loro core bussiness proprio le costruzioni (soprattutto centri commerciali  ed alberghi). Poi troviamo Alfio Marchini, romano, e conosciuto anche per il suo impegno politico, ma che deve molta della sua fortuna all’investimento nel settore immobiliare.

Carta e mattoni sono stati complici delle cementificazione del territorio. I plusvalori della rendita immobiliare sono risultati molto più appettibili dell’investimento nella produzione e nell’innovazione. Molte risorse sono rimaste pietrificate proprio quando nella crisi molte imprese avrebbe avuto bisogno di credito per innovare e trovare nuovi mercati. Ma le banche hanno tenuto in corpo questi “asset” – finchè hanno potuto senza certificarne la perdita come ha spiegato Martinelli -,  ma stringendo ancor di più i cordoni della borsa nei confronti di chi chiede e chiedeva un prestito.

Molte critiche sono state giustamente rivolte alla (mala)gestione delle due banche, ai crediti allegri concessi ad amici e amici degli amici, alla pratica estorsiva di concedere prestito in cambio dell’acquisto di azioni sopravvalutate. Ma in controluce possiamo anche leggere le pratiche distruttive di questo sviluppo, da queste parti particolarmente devastatrici.

Prima di dichiarare sicuro: “è chiaro che con quello che è successo il sottoscritto non c’entra niente, a meno che non si cerchi un alibi”, Zaia dovrebbe riflettere sulle politiche territoriali perseguite in questi anni, al via libera a Veneto City, alle infrastrutture – veicolo di “valorizzazioni immobiliari” -, ai piani casa, ai piani territoriali trasudanti metri cubi di cemento. La politica ha fatto la sua parte dando via libera alle operazioni immobiliari più disparate e certificando la destinazione d’uso dei territori: l’imprenditoria e le banche hanno fatto il resto.

E il terzo beneficiario della popolare vicentina? Si tratta della famiglia imprenditoriale dei Degennaro – lavorano nell’immobiliare anche loro – e il  “Quotidiano Italiano” edizione di Bari dello scorso 30 giugno scrive: “sono stati rinviati a giudizio Savino Parisi, boss mafioso del quartiere Japigia, Emanuele Degennaro, rettore dell’università Lum e l’avvocato Vincenzo Lagioia, con l’accusa di riciclaggio con l’aggravante di favoreggiamento di associazione mafiosa. La cifra, enorme, sei miliardi di lire; il metodo, un’operazione immobiliare attraverso una società riconducibile a Degennaro, che ha dichiarato la propria estraneità alle accuse mossegli. L’udienza dinanzi al gip Francesco Agnino è stata rinviata al 4 novembre prossimo. Secondo le ricostruzioni della Dda, nel 2002 il gruppo Degennaro è in forti difficoltà economiche così da accettare i sei miliardi di lire in contanti da Michele Labellarte, imprenditore scomparso nel 2009, ritenuto dalle Fiamme Gialle il cassiere degli Stramaglia. Labellarte avrebbe dovuto “lavare” i proventi del clan Parisi-Stramaglia”.

 

 

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