Fughe da fermi

Chiude la Ramm Srl di Sandro Rossato, arrestato lo scorso luglio per associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti assieme ai boss della ‘ndrangheta, cioè la mafia calabrese. A rimetterci però saranno 23 operai dell’azienda di via Marinoni a Pianiga che dal 13 febbraio scorso, si trovano di fronte alla presentazione di un concordato preventivo da parte dell’azienda, di fatto il fallimento. Gli operai molti del posto, del miranese e anche del meridione d’Italia rischiano addirittura di vedersi dissolvere il diritto alla mobilità retribuita per un inghippo burocratico. La situazione della Ramm è precipitata quando il prefetto di Venezia, dopo aver recepito le indagini delle Procure, ha escluso la Ramm dagli appalti pubblici revocando anche quelli che gli erano già stati assegnati. Nel giro di pochi mesi l’attività ha accumulato un buco di quasi 4 milioni di euro.

Si sono ritrovati per strada in novecento con la crisi della Pansac azienda chimica che produceva materiale per i pannolini. Cinquecento solo in Veneto tra Marghera, Mira e Portogruaro in provincia di Venezia. Fabrizio Lori, il titolare, finisce in carcere nell’ottobre del 2012 ad un anno dal commissariamento dell’azienda, con l’accusa di bancarotta fraudolenta. Il buco di bilancio è di 40 milioni di euro. «Paghi i calciatori e non gli operai» gridavano i lavoratori, ed era vero. Lori possedeva il Mantova calcio dove investiva, anche negli anni della crisi, le sue risorse.

Domenico Monteleone invece operava a Treviso, ma l’hanno arrestato a San Ilario dello Ionio, in provincia di Reggio Calabria, dove stavo trascorrendo le vacanze di Natale. Alle spalle una robusta serie di bancarotte. Monteleone versava i contributi della ditta edile di cui risultava titolare solo nel primo anno di attività, poi avviava la ditta verso il fallimento costituendo nuove società che il bancarottiere apriva assorbendo operai e appaltatori dell’impresa precedente. I trenta dipendenti, tutti dell’est Europa, sono finiti per strada.

Percorsi di imprenditori che per sopravvivere alla crisi hanno individuato nelle pratiche illegali, o dichiaratamente criminali, il modo per sfangarla. «C’è un aumento dei fallimenti, stiamo cercando di analizzare il fenomeno – racconta Massimo Dell’Anna del comando di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Treviso – all’interno di questi si annidano comportamenti ‘disinvolti’ che sono comunque in aumento».

Negli anni ’90 vi fu la delocalizzazione, il trasferimento nell’est Europa, in particolare in Romania di una parte importante dell’imprenditoria nordestina e la conseguente emorragia occupazionale in loco. Con la delocalizzazione vennero recisi i legami, e gli obblighi che ne conseguono, di molti imprenditori con la comunità di origine, ma i posti perduti vennero riassorbiti in una fase contrassegnata comunque dalla crescita economica. Ora, con la crisi, siamo di fronte ad una sorta di delocalizzazione da fermi, di scissione – attraverso varie forme – dei legami con la comunità, con la legalità e con i lavoratori trattati come un peso da scaricare. «La tendenza è quella di scaricare su altri, fornitori, lavoratori e la collettività in generale, il peso della crisi – racconta l’economista Bruno Anastasia -, una fuga dalle responsabilità potremmo definirla». Non è il caso di generalizzare, ovviamente, la classe imprenditoriale è stata a nordest un fenomeno di massa e vi ritroviamo un po’ di tutto.

E sono le stesse organizzazione di categorie a cogliere il problema. «Osserviamo un uso improprio ed esagerato di procedure di concordato fallimentare – racconta Nicola Zanon di Apindustria Venezia -, dove la media azienda che può disporre di consulenze professionali adeguate mentre presenta in tribunale il cosiddetto concordato in bianco, ossia senza documentazione, ed ottiene così tre mesi di tempo senza subire richieste ingiuntive, prepara la nuova società in cui far confluire le risorse, compreso il portafoglio clienti, lasciando alla vecchia società i debiti verso fornitori e lavoratori».

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