Nord corrotto, nazione infetta

C’era una volta il nord. In Italia il nord non è stato solo un’area geografica, ma un punto di riferimento per lo sviluppo di tutto il paese. Sviluppo inteso come complesso insieme di benessere e virtù civiche, di coesione sociale e crescita economica. In questo senso il «nord» ha rappresentato un vero e proprio punto cardinale utile per tenere la rotta. E’ ancora così?

Leggiamo nel rapporto della Commissione antimafia sulla diffusione delle mafie al nord: «la resistenza opposta da un tessuto economico – sociale complessivamente sano, il rigetto di gran parte della società italiana dei metodi tradizionali dei poteri mafiosi, la stessa esistenza di un tessuto connettivo democratico capillarmente diffuso e meno facilmente permeabile rispetto alle infiltrazioni di soggetti dediti alla criminalità organizzata, funzionano sostanzialmente come anticorpi ed impediscono la riproduzione delle condizioni ambientali tipiche delle zone d’origine delle organizzazioni mafiose». Chiariamo subito: il rapporto è del 1994. Letto oggi sembra parlare di un altro paese, ed in fondo è proprio così.

Il 22 dicembre 2014 il vicesindaco e assessore all’urbanistica di Verona, Vito Giacino, insieme alla moglie Alessandra Lodi, viene condannato in primo grado a cinque anni di carcere per «concussione e l’induzione a dare o promettere utilità». Leggiamo nella sentenza: «… Giacino Vito operando quale vicesindaco del Comune di Verona …. abusando della sua qualità e dei suoi poteri, costringeva e induceva Leardini a dargli o promettergli indebitamente 110mila euro in contanti, nel 2008, pretendendoli asseritamente quale retribuzione della sua mediazione per la conclusione di contratto di compravendita di terreno in zona Porto S. Pancrazio, a favore di Leardini e quale garanzia dell’edificabilità dell’area …».

L’edilizia ha rappresentato il motore dello sviluppo del nord e in questi anni sul territorio sono state scaricate le spinte individuali alla realizzazione immediata dei propri interessi (Berta, 2015). Spinte individuali che spesso hanno fatto strame, come nel caso veronese, di legalità piegando la regolazione urbanistica all’occasione del momento. Le regole sono state adattate alle esigenze emergenti – si chiamano varianti – rimanendo formalmente regole. Regole occasionali figlie di una legalità debole e opportunista. Si è costruito dove costruire significa spesso farlo laddove, per motivi di sicurezza, di bellezza paesaggistica e di convenienza pubblica, non si sarebbe dovuto. «La naturale simbiosi tra costruttori, professionisti-progettisti e funzionari degli uffici comunali preposti al governo del territorio – scrivono gli analisti Salvatore Sberna e Alberto Vannucci – genera triangolazioni d’affari grazie alle quali il valore dei terreni e degli investimenti può moltiplicarsi con un semplice tratto di penna o una diversa colorazione di pennarello» (Sberna, Vannucci, 2014).

Le collusioni tra politica e mondo degli affari trovano fondamentale punto di incontro nell’urbanistica. Le reti criminali e corruttive non compiono solo «abusi edilizi», ma cercano di condizionare le scelte di pianificazione stravolgendo un ordinato sviluppo urbanistico, che viene così scavalcato da interessi privati che sono di ostacolo a una gestione del territorio che abbia come obiettivo il perseguimento dell’interesse collettivo. Il contesto del nord Italia presenta alcune caratteristiche – come la regolazione urbanistica – che sembrano favorire le infiltrazioni degli interessi criminali nella gestione del territorio tanto che i processi decisionali possono venire alterati dalle pressioni della criminalità organizzata che, in questo modo, può orientarli a proprio vantaggio (Granata, Savoldi, 2012).

La legislazione urbanistica regionale, in particolare in Lombardia e in Veneto, in nome della semplificazione e dell’efficienza, ha introdotto procedure di pianificazione e programmazione sempre più de-regolative. In questi anni dispositivi come programmazione, pianificazione territoriale, certezza di regole sono stati sostituiti da tutta una serie di accordi pubblico – privati «in deroga», fortemente discrezionali, quali gli «accordi di programma», i «progetti speciali o strategici a regia regionale», i Piruea (piani/progetti urbanistico – edilizi proposti dai privati anche in difformità dalla programmazione urbanistica, talvolta enormi interventi che stravolgono qualsiasi piano).

Come leggiamo nella relazione ufficiale della Commissione per lo studio e la prevenzione della corruzione «il rapporto pubblico/privato non è, quindi, più fondato sulla tradizionale (e fondamentalmente statica) dialettica tra autorità e libertà e tra regolazione pubblica e diritto di proprietà privata, ma diviene sempre più un rapporto negoziale, fondato sullo scambio tra conseguimento di rendite finanziarie derivanti dall’utilizzo del territorio e realizzazione». In generale le forme di «urbanistica contrattata» – uno degli strumenti più tipici della corruzione svelati da tangentopoli – sono ora ancora più generalizzati. In Veneto ad esempio con l’articolo 6 della legge regionale urbanistica n.11/2004, la Regione fa esplicito invito ai privati a partecipare all’iter formativo dei nuovi piani urbanistici, sollecitandoli a presentare progetti ed iniziative “di rilevante interesse pubblico” che attraverso la formula degli “accordi tra soggetti pubblici e privati” possano divenire “parte integrante dello strumento di pianificazione” cui accedono. È scontato che quando nella legge si parla di «privati» si fa riferimento ai potenti gruppi imprenditoriali e finanziari che traggono profitto dalle trasformazioni territoriali.

Da quanto apprendiamo dalle carte della recente inchiesta sulla discarica genovese di Scarpino, lì sarebbero finiti rifiuti senza che fosse attuata la differenziata e fossero preventivamente trattati. E questo grazie, è la tesi della procura, alla corruzione perpetrata dai gestori della discarica nei confronti dei tecnici e dirigenti della provincia di Genova e della locale azienda pubblica che gestisce il ciclo dei rifiuti. Gli indagati secondo quanto scrivono gli inquirenti: «violavano le procedure di ammissione dei rifiuti in discarica, collocandoli senza il preventivo trattamento e in assenza delle prescritte analisi… Non presentavano il piano di prevenzione e gestione delle acque piovane, finalizzato ad evitare che vi finissero gli inquinanti… Smaltivano i liquidi pericolosi, costituiti dal percolato, nelle aree a valle della discarica, con elevate concentrazioni di azoto, cromo esavalente, mercurio e ferro… Attraverso condotte e by pass presenti nel percolatodotto (la conduttura che da Scarpino porta al depuratore di Cornigliano…) scaricavano il percolato nella rete fognaria… Gestivano la discarica in assenza di autorizzazione, smaltiva- mo ingenti quantitativi di rifiuti oltre quelli autorizzati con Aia del 2005… Non presentavano il piano di stabilità». Ingrediente principale della civiltà del nord è stato il buongoverno amministrativo che ha avuto nelle città il suo terreno di elezione. Ad osservare i varchi che si spalancano oggi alla criminalità e alle reti corruttive sembra impossibile. Gli attentati all’ambiente non possono che passare attraverso le falle istituzionali, la tutela dei beni comuni è parte integrante dell’etica pubblica, attraverso la corruzione chi non può «sopportare» i vincoli della normativa ambientale, prende una scorciatoia che gli permette di scaricare sull’ambiente i relativi costi.

«Siamo immersi in un sistema di corruttela troppo strutturato, troppo consolidato, nella pubblica amministrazione e nella magistratura, nella Corte dei conti e nei Tar, fino anche al Consiglio di Stato. Ovunque funziona così. Se vuoi i lavori pubblici, devi fare queste cose. Tant’è che i ricorsi delle gare per gli appalti le vinceva chi pagava di più. Eravamo convinti che quello fosse l’unico sistema possibile, che non si potesse fare diversamente. Solo quando ci hanno arrestato abbiamo capito la gravità delle nostre azioni». La dichiarazione è di Claudia Minutillo, ex segretaria di Giancarlo Galan – a lungo presidente della Regione Veneto e poi ministro – e, assieme a lui, una dei protagonisti dell’immenso sistema di corruzione che girava attorno al Mose di Venezia. E che «non si potesse fare diversamente» lo pensavano i molti imprenditori che grazie a quel sistema avevano conquistato una rendita di posizione invidiabile e, in molti casi, vitale. Dal mondo dell’imprenditoria emerge – come apprendiamo da grandi e piccole indagini della magistratura – la richiesta di essere cooptati dentro circuiti protetti, dove vengono ammorbidite, dalla logica dei favori e degli scambi occulti, le leggi del mercato e della concorrenza. Quello che sta emergendo è il ritratto dell’imprenditore protetto, un imprenditore il cui obiettivo più che il profitto, è la rendita assicurata da politici e funzionari pubblici senza rischio d’impresa, «si sviluppa così una classe imprenditoriale parassitaria, preoccupata di curare le relazioni coi decisori politici e burocratici di riferimento – scrive il sociologo Alberto Vannucci in uno dei suoi ultimi studi sulla corruzione italiana – più che di innovare e gestire con efficienza le attività produttive» (Vannucci, 2012).

Sono stati rinviati a giudizio, dopo l’inchiesta curata dal corpo forestale dello Stato, dal tribunale di Rovigo nel marzo di quest’anno, quattro dipendenti dell’Agenzia interregionale per il fiume Po (Aipo) e tre imprenditori. L’ipotesi accusatoria – confortata per altro dalle rivelazioni di uno degli imprenditori coinvolti – è che in cambio dell’assegnazione dei lavori sugli argini del Po, gli imprenditori avrebbero versato tangenti ai funzionari dell’Aipo. Gli imprenditori avrebbero quindi guadagnato sia eseguendo lavori solo formalmente di una certa rilevanza, sia impiegando quantità di molto inferiori di materiale come i sassi (anche un quinto di quanto dichiarato) vista la mancanza di controlli assicurata dai funzionari dell’Agenzia. All’origine la solita emergenza: per quei lavori di ripristino degli argini del Po fu decretata la «somma urgenza» e quindi una procedura «snella» per l’assegnazione dei lavori ad una serie di ditte «selezionate». Più che l’effrazione della norma preoccupa il suo “addomesticamento”. Il sistema di regole è vissuto come un ostacolo alla crescita e al dispiegarsi delle attività economiche (Nicola Destro, 2013). Per questo si fa ricorso a procedure “eccezionali”, a “decretazioni d’urgenza” o dispositivi dell’“urbanistica contrattata” che promuove varianti in spregio alla pianificazione.

Ciascuno persegue il suo interesse, mentre viene corroso, proprio in questo territori, l’insieme di norme, morali prima che giuridiche, che tengono insieme una società (Perulli, Picchieri, 2010). L’apparto di norme servirebbe – ed è servito – ad ostacolare ed “a mettere sotto controllo la natura selvaggia del dominio” – come ha scritto Marco Revelli -, a porre limiti a poteri che altrimenti non troverebbero limiti nella loro bulimia. Senza alcun ragionevole dubbio, oggi, la più redditizia modalità di formazione di plus valore economico e la più efficace strategia per l’acquisizione di posizioni di potere politico e sociale è proprio quella perseguita al di fuori o apertamente contro le norme di diritto. La criminalità economica – di matrice mafiosa o meno – non è un fenomeno «deviante», ma un indicatore preciso di una patologia estesa del sistema politico ed economico.

All’inizio dell’articolo abbiamo citato un documento della commissione parlamentare antimafia, ma nei casi di cui abbiamo parlato non è emerso il ruolo delle mafie. In realtà abbiamo utilizzato le mafie per parlare della società nel suo complesso (che presentava allora “un tessuto economico – sociale complessivamente sano”). Le mafie sono nello stesso tempo un potente rilevatore e uno specchio che deforma e ingrandisce i caratteri negativi della nostro tempo e del nostro territorio e segnalano, in controluce, i cambiamenti avvenuti nella società in cui si radicano (Sciarrone, 2014). In definitiva le mafie possono essere utilizzate come sensori della qualità sociale: la loro presenza e pervasività dicono molto dello stato di salute della nostra convivenza. Questo rovesciamento di visuale permetterebbe di ridefinire il problema: non tanto l’«assalto» di una forza esterna [la piovra], ma l’incontro e il radicamento di un modus operandi che riguarda anche noi [società del nord] il nostro rapporto con i beni comuni, con gli altri e con la società. D’altronde «i fattori che consentono la formazione della criminalità organizzata – sottolinea la studiosa Ada Becchi – non sembrano dunque derivare, e non in parte, dal mondo criminale, ma piuttosto da malformazioni, disfunzioni o incrinature delle istituzioni e delle regole del gioco» (Becchi, 2000). Ed è proprio in quella direzione – del mal funzionamento delle istituzioni (e dell’economia) – che occorre continuare a guardare, interrogando e denunciando.

Riferimenti bibliografici

Ada Becchi, Criminalità organizzata. Paradigmi e scenari delle organizzazioni mafiose in Italia, Donzelli, Roma, 2000

Commissione per lo studio e la prevenzione della corruzione, 2012

Giuseppe Berta, La via del nord. Dal miracolo economico alla stagnazione, il Mulino, Bologna, 2015

Marco Cappelletti, La corruzione nel governo del territorio. Forme, attori e decisioni nella gestione occulta del territorio, BookSprint, 2012

Mauro Giudice, Fabio Minucci, Governare il consumo di suolo, Alinea Editrice, Firenze, 2013

Elena Granata, Paola Savoldi, Prediche inutili. Perché parlare di mafie e urbanistica, in Territorio, 63/2012

Rocco Sciarrone (a cura di), Mafie del nord, Donzelli, Roma, 2014

Perulli, Picchieri, La crisi italiana nel mondo globale. Economia e società del nord, Einaudi, Torino, 2010

Marco Revelli, Il demone del potere, Laterza, Bari, 2014

Salvatore Sberna, Alberto Vannucci, Le mani sulla città. Corruzione e infiltrazioni criminali nel governo del territorio, in Laura Fregolent e Michelangelo Savino, Città e politiche in tempi di crisi, Franco Angeli, Milano, 2014

Alberto Vannucci, L’atlante della corruzione, Ega- Gruppo Abele, Torino, 2012

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