E’ un’analisi che punta al cuore della crisi quella che Richard Sennet porta avanti con la sua ultima opera «L’artigiano», «niente a che vedere con romanticismo o nostalgia del piccolo artigiano nella sua bottega» tiene a sottolineare il sociologo americano che incontriamo a San Polo di Piave, nel trevigiano, dove è venuto a ritirare il premio letterario «Gambrinus – Mazzotti».
L’artigiano di cui parla Sennet, non è solo il classico falegname – raffigurazione iconica del buon artigiano di una volta -, ma anche l’infermiere o il programmatore di Linux, «chi investe impegno personale nelle cose che fa» in un’attività pratica in cui «l’abilità tecnica non è scissa, come accade ora, dall’immaginazione» chiarisce lo studioso.
Ed è attraverso queste figure che il decano della sociologia americana compone un racconto, che diviene l’oggetto della nostra conversazione, dentro la crisi tra i suoi aspetti più reconditi: le identità, il rispetto e l’autonomia delle persone. «Un percorso a ritroso rispetto all”’Uomo flessibile’ – ricorda -, l’opera in cui ho cercato di indagare le conseguenze della crisi, e sulle forme della precarietà che incidono a fondo nelle personalità delle persone, mentre in questo ho cercato una via d’uscita».
«In realtà si tratta di un dramma – sottolinea con una punta di amarezza Sennet -, l’artigiano, e chi cerca appunto di fare bene il suo mestiere si trova in contrasto con le regole del capitalismo che impone invece di fare per fare, indifferenti a come si debba procedere per fare le cose per bene». La crisi viene quindi indagata non tanto negli aspetti della crisi finanziaria – «di cui capisco che è una cosa cattiva, ma non molto di più» accenna ironico -, e nei suoi parametri econometrici, ma nella sua incapacità di soddisfare bisogni profondi delle persone, come quello del riconoscimento per un opera ben fatta.
Ed è la sorte dei medici e degli infermieri inglesi che, nel racconto di Sennet, prende corpo, e si chiarisce come l’attuale sistema, e il suo apparato retorico basato sulla qualità e il merito, entri in rotta di collisione con la volontà delle persone di fare al meglio il proprio mestiere, mettendo in gioco la propria identità.
«Le riforme che hanno investito il sistema sanitario inglese – racconta Sennet – hanno imposto obiettivi quantitativi e numero di prestazioni prestabilito, questo ha fatto sì che i tempi dedicati dagli infermieri alle ‘chiacchiere’ con i pazienti, spesso soli e depressi, venissero compressi. Il lavoro di cura è ambiguo – sottolinea – nel senso che dovrebbe affrontare un complesso di situazioni non predeterminate e il malato non può essere ‘riparato’ come un automobile».
Le riforme sanitarie hanno creato risentimento e frustrazione tra gli operatori della sanità inglese – e ha migliorato i risultati nei confronti delle malattie gravi come i tumori, ma peggiorato la performance nel caso di malattie meno gravi o croniche -, ma il problema che poniamo a Sennet, è di come questa contraddizione che umilia le persone, i moderni artigiani, tra il ben fare e il fare comunque del capitalismo, possa trasformarsi in produttivo conflitto. «C’è la necessità – sottolinea Sennet – di un cambio radicale, ad esempio, dell’azione sindacale che, almeno in Inghilterra, è ridotta alla tutela delle persone già garantite, anziane e al top della carriera, mentre le altre non vengono neppure ‘viste’. Il problema, se vogliamo seriamente prendere in mano politicamente i temi sollevati nel libro – prosegue il sociologo –, è passare dalla difesa dei lavoratori alla difesa del lavoro nella sua complessità e nella sua qualità ritornando, paradossalmente, alle confraternite medioevali dei lavori, le gilde».
Il lavoro artigiano si presenta, seguendo l’appassionato eloquio di Sennet e il chiaro incedere della sua scrittura, come la vera pietra dello scandalo dell’odierno sistema capitalista e della sua crisi: «il sapere dell’artigiano si accumula nella lentezza, nell’abitudine e nell’errore – racconta Sennet -, mentre la velocità, l’estemporaneità e la precarietà erodono questi caratteri».
Al senso, che si arricchisce di valenze sociali, del proprio lavoro si va sostituendo l’ossessione e la compulsione al fare che non si pone domande rispetto alle motivazioni che lo muovono, complice la scorciatoia offerta dalle tecnologie. In questo caso Sennet offre l’esempio dell’architettura, di cui è conoscitore appassionato, in cui gli oramai insostituibili programmi informatici offrono tutte le informazioni e consentono l’edificazione di edifici astrattamente perfetti, ma non gli accidenti e le rugosità delle interazioni con l’ambiente – come l’influsso delle temperature – che è possibile apprendere attraverso il contatto fisico e una progettazione più aderente al terreno e meno asettica, in definitiva più «artigianale».
Sollecitiamo Sennet sul fatto, apparentemente contraddittorio, di come tutto questo accada mentre la qualità assume una posizione centrale nelle retoriche dominanti. «Il punto – chiarisce il sociologo statunitense – è che vi sono criteri di qualità in conflitto tra loro, uno che si appella al modo corretto di fare le cose e l’altro al valore dell’esperienza pratica, al sapere tacito che si accumula nel fare, ed è una contraddizione che vediamo all’opera nel caso degli ospedali inglesi dove i riformatori si appellano ad una concezione di qualità assoluta, mentre gli operatori traggono la loro visione dall’esperienza».
E non è certo l’unico caso, quello della sanità inglese, dove l’esperienza pratica e tacita dei lavoratori ha pesato meno delle visioni ideologiche dei tecnocrati. Anche la meritocrazia, sbandierata senza risparmio per giustificare lo smantellamento del sistema di istruzione pubblico, andrebbe indagata alla luce dell’analisi di Sennet, che infatti non si risparmia: «ho osservato nelle scuole e negli ambienti di lavoro come vengono somministrati i test, sono davvero molto preoccupato – racconta -, occorre rendersi conto che la risposta sbagliata é quella più interessante perché apre nuove possibilità e riflessioni: occorre poter sbagliare, come accade agli artigiani, è apprendere dagli errori. I testi standardizzati impediscono questo».
L’ossessione per la qualità e il merito concepisce il lavoro come una corsa di cavalli, in cui il successo è fotografato nell’istante del fotofinish, mentre per considerare un buon lavoro è bene leggere in profondità la storia dei materiali, considerare le inesattezze e i problemi e ritornarci sopra periodicamente. La prima presuppone l’individualismo e la solitudine, la seconda il dialogo e l’«esperto socievole» in grado di misurarsi con le differenze. E’ in questa chiave che Sennet propone una lettura diversa dell’individualismo americano, registrato in un celebre saggio di Putnam, sul gioco del bowling in cui notava la tendenza degli americani a giocare da soli e il declino delle società sportive. E’ la nuova organizzazione, e soprattutto la nuova filosofia, del lavoro che produce isolamento e solitudine e dal lavoro, anche come fonte d’identità e rassicurazione, occorre ripartire.
Durante il colloquio – è lui stesso a proporre di chiacchierare e di superare il modulo dell’intervista – il sociologo allievo di Hanna Arendt, sembra particolarmente interessato alle sorti della sinistra italiana, mostrandosi sorpreso delle difficoltà delle formazioni verdi, mentre «in Inghilterra dove assistiamo al ritorno del tatcherismo, le persone stanno abbandonando il Labour per approdare al partito verde».
Sulla crisi ambientale Sennet promette di stupire e disorientare, con un libro a cui sta lavorando e in cui propone l’assunzione della mentalità dei migranti, e quindi di passaggio, nel trattare il rapporto con il nostro pianeta, una approccio che ci sembra in contrasto con consolidate correnti dell’ambientalismo che invitano al radicamento territoriale. Ma non c’è tempo «è un altro libro – sorride affabile – sarà per la prossima volta» -, la cerimonia sta per iniziare e Richard Sennet, – dimostrando un’abitudine ben poco americana che ce lo rende ancora più simpatico – vuole ritagliarsi il tempo per una sigaretta -, e dobbiamo concludere.
(articolo uscito su Carta nel 2010)