Buongiorno e grazie dell’invito. Spero che questo mio intervento, se non altro, possa cogliere qualche interesse, nel senso che cercherò di parlare della situazione di una regione, cioè il Veneto, normalmente poco focalizzata rispetto alla questione della criminalità organizzata. Si è detto, giustamente, che al Nord c’è una situazione molto delineata e pesante ma che quest’ultima in particolare riguarda Piemonte, Lombardia e Liguria, anche a partire dalle cronache che emergono.
Nel Veneto pare esserci più che altro un paesaggio di ombre rispetto alla criminalità organizzata; non sono emerse delle inchieste che abbiano delineato la presenza delle organizzazioni mafiose ma questo non vuol dire che non vi siano dei segnali molto pesanti.
Soprattutto non vuol dire che non sia il caso di provare ad analizzare, non tanto le dinamiche della criminalità organizzata, quanto il tessuto imprenditoriale e sociale, che l’agire della criminalità incontra. Quello a cui, probabilmente, ci troviamo davanti nel Veneto e nel Nord-Est è un processo di ibridazione, cioè di cointeressenza tra l’agire mafioso e l’agire imprenditoriale, in cui vi è una capacità di adattamento e quindi di sfuggire all’individuazione delle pratiche mafiose all’interno di pratiche d’illegalità propria dell’imprenditorialità veneta, che non sono di oggi, di questa crisi, ma che questa crisi ha sicuramente accelerato ed aggravato.
Grazie ad un’inchiesta – l’unica che ha portato ad una condanna per 416 bis – che ha riguardato un gruppo di Camorra che praticava usura, fallimenti pilotati e una serie di pratiche a favore e contro un numero significativo d’imprenditori veneti, forse riusciamo a leggere alcune dinamiche che riguardano le culture, il modo di fare imprenditoria. Partendo da qui, forse, possiamo fare qualche passo avanti nell’analisi del contesto. Ci troviamo di fronte ad una sorta di fragilizzazione dell’economia nordestina, che fa riferimento ad alcuni caratteri di fondo che connotano la cultura imprenditoriale di questa regione, in cui, per altro, l’agire delle organizzazioni mafiose è data per lo meno dagli inizi degli anni Ottanta.
Questo emergeva fin dal rapporto della Commissione Antimafia pubblicato nel 1994, in cui si faceva dichiaratamente cenno a fortissimi investimenti in molti circuiti imprenditoriali. Dall’analisi dell’inchiesta su Aspide – questo gruppo di Camorra che operava nel padovano e in generale in tutto il Veneto, soprattutto rispetto all’usura ma non solo – vi sono alcune caratteristiche che riguardano il comportamento degli imprenditori. Parliamo di uno spaccato di 120 imprenditori che sono entrati in contatto con Aspide – un’attività che è durata meno di due anni – per cui uno spaccato molto significativo. È significativo il fatto che Mario Crisci, il capo di questa impresa criminale, abbia detto di non aver bussato le porte di nessuno ma di essere stato direttamente contattato dagli imprenditori. Ci sono alcune caratteristiche che vorrei velocemente delineare. La prima: il gruppo Aspide non è che si mimetizzasse.
Quando un imprenditore arrivava lì per chiedere un credito, per chiedere dei servizi, oppure per riscossione di crediti, eccetera, loro avevano una pistola sul tavolo! Dopo poco facevano capire esplicitamente che i loro metodi erano molto particolari e quindi l’imprenditore sapeva in che tipo di contesto andava a cacciarsi. La cosa incredibile è che molti di questi imprenditori hanno contratto dei debiti con questa finanziaria sapendo benissimo che non ne potevano uscire, perché la loro condizione economica e l’assetto delle loro imprese era sostanzialmente decotto. Loro, però, continuavano e reiteravano la richiesta di prestiti. Questo è un aspetto interessante che dovrebbe farci sollevare alcuni dubbi. Una delle letture che potrebbe essere fatta rispetto a tale questione è l’impossibilità da parte dell’imprenditore di dichiarare fallimento, anche per un’origine puramente culturale. In tale raffigurazione l’imprenditore, anche per la responsabilità che ha con i dipendenti e con la comunità locale, viene dipinto come una sorta di hidalgo che, salito a cavallo, non può più smontare, qualsiasi cosa accada. Egli deve provare il tutto per tutto per fare in modo di cavarsela. Questa è una sorta di habitus culturale, che ha connotato e connota la cultura dell’imprenditore veneto ma, in qualche modo, la chiude anche all’interno di una gabbia.
Ciò conduce a una fortissima soggettivazione, a una fortissima implicazione personale con la propria impresa, a una mancanza di oggettivazione: “io sono l’impresa e non può andare male perché, altrimenti, va male la mia traiettoria esistenziale”. Questo tipo d’implicazione profonda della propria soggettività riguarda un altro aspetto molto interessante: la questione della corruzione, cui si accennava stamattina. Come sappiamo, le transazioni economiche all’interno del mondo dell’imprenditoria sono molto spesso connotate da caratteri d’informalità, cioè non è tanto la dimensione contrattuale e formale che lega, ad esempio, un fornitore ad una ditta ma è sostanzialmente reticolo di conoscenze. Anche il tipo di pagamenti o meno vengono svolti sulla base di una precisa forma mentis: “non ti preoccupare, io ti conosco, ci conosciamo, viviamo nello stesso ambiente”. In una situazione astratta dove, in qualche modo, il mercato dovrebbe funzionare, io vado a comprare il pane e lo pago; in una situazione così intrisa da rapporti soggettivi, da rapporti di relazione anche di potere, io ti fornisco la merce, tu mi pagherai perché sei mio amico, perché mi fido di te, perché so che abbiamo una consuetudine.
Questa tipologia di transazione ha degli aspetti molto positivi in momenti buoni di mercato ma in una situazione di crisi sta facendo esplodere qualsiasi tipo di relazione professionale di mercato, perché tutti sono imprigionati in reticoli di riconoscimento tra di loro. È una coazione a ripetere che alla fine stritola.
Un esempio molto veloce. È fallita la Dinamic Jeans – una ditta di abbigliamento in provincia di Padova – e i trenta fornitori monocommittenti, che lavoravano per qull’azienda, hanno dichiarato: “per vent’anni è andata bene, ci avevano detto di non preoccuparci, dandoci una pacca sulla spalla, noi ci siamo fidati e abbiamo continuato a lavorare per loro”. Si sono ritrovati a terra in seguito al fallimento. Queste relazioni del “non detto” connotano un tipo di meccanismo e di contesto, nel quale chi lavora abitualmente in dimensioni informali e poco trasparenti ha buon uso d’inserirsi. L’altro aspetto importantissimo è quello della dimensione di “ombrelli” a difesa della competizione sempre più sfrenata. Checché se ne dica nella vulgata comune, quello di cui sta soffrendo il sistema produttivo è sicuramente una competizione arrivata a livelli parossistici. Pensiamo a tutto il settore della logistica, dove spesso si risponde con degli accordi collusivi tra imprenditori che cercano di trovare degli spazi di manovra, cioè dei momenti di respiro attraverso dei meccanismi corruttivi. Ciò è ben evidente anche in quello che rimane del settore dell’edilizia in Veneto. Si tratta di circuiti chiusi dell’economia.
Faccio un altro esempio. Un imprenditore mestrino ha dichiarato ad un giornale locale poco tempo fa: “Se mi chiedono una tangente?…magari me la chiedessero, potessi accedere ai circuiti di corruzione; purtroppo sono circuiti chiusi, sono persone che non conosco e non so dove andare, ma se io trovassi gli spazi per poter corrompere e poi lavorare, lo fare immediatamente”.
Questa dei circuiti chiusi è una dimensione che, ovviamente, riguarda anche la politica ed è un fattore di contesto fondamentale. Io vorrei ricordare che nel Veneto sta sostanzialmente esplodendo una tangentopoli in forme probabilmente molto più gravi e radicali di quelle che abbiamo visto vent’anni fa. Attualmente, sono sotto inchiesta il gota dell’imprenditoria veneta nel settore delle grandi opere e dell’edilizia. Tutto questo nell’imbarazzo e nel silenzio della politica!
All’interno di questi cartelli, che sono stati scoperti e sono sotto indagine della magistratura, non si è però evidenziato un ruolo definito da parte delle organizzazioni mafiose. Questo probabilmente perché l’imprenditoria veneta ha pratiche d’illegalità autosufficienti e può darsi – come c’è stato confidato da qualche investigatore – che i meccanismi di cointeressenza, di alleanza e di capacità di collusione siano talmente stretti che, a quel livello ancora, non ci si arrivi.
Per entrare più nel merito dei lavori di oggi, vorrei segnalarvi un altro fattore fondamentale rispetto al mutamento delle culture imprenditoriali del Nord Est: il rapporto degli imprenditori nei confronti del lavoro dipendente. Quello che è stato dipinto, fino a qualche anno fa, era uno scenario di forte coesione culturale, di forte predisposizione alla cultura del lavoro e alle abilità artigianali, che sono stati messi al lavoro rispetto allo sviluppo produttivo di quel territorio, anche grazie a una professionalità diffusa. Sostanzialmente, questo tipo di modello di coesione sta saltando anche perché – ed è quello che ci ha raccontato un ricercatore – muta la capacità dell’imprenditore di affermarsi in società.
Fino a qualche anno fa, un imprenditore di elettrodomestici molto famoso poteva permettersi di dire in pubblico: “io misuro la mia forza dal numero di dipendenti che ho, dal fatto che ci sono mille famiglie che dipendono da me e dal mio fare impresa”. Ora, questo tipo di affermazione non esiste più! C’è un mutamento culturale di fondo: più mi alleggerisco di obblighi, più mi alleggerisco di contratti a tempo indeterminato, di dipendenti e meglio è, perché posso muovermi, posso essere più flessibile così da riciclarmi in diversi cicli. Questo è un vero e proprio cambio di paradigma culturale!
Tutto ciò conduce all’intermediazione di manodopera e, quindi, all’esternalizzazione della manodopera. Si utilizza la forza lavoro solo nei momenti in cui fa comodo, tramite appalti e subappalti. Ecco, su questo punto, il ruolo della criminalità organizzata in Veneto è già acclarato in maniera evidente!
A Verona la mediazione è un settore su cui la Ndrangheta ha già, dalla fine degli anni Novanta, un ruolo abbastanza importante. C’è il caso di un siciliano che operava a Treviso e che aveva organizzato delle squadre di operai bulgari – soprattutto nel settore metalmeccanico – con le quali riusciva a fornire prestazioni lavorative in nero. Era arrivato a dei livelli molto alti: riforniva la Marcegaglia tanto per dire! Tra l’altro, aveva anche in piedi un meccanismo di corruzione di alcuni funzionari della Questura per il rilascio dei permessi di soggiorno.
Questo è il meccanismo delle esternalizzazioni, che trasferisce su altri il rischio: se si arriva a quel punto, non sono più affari miei! Si tratta di un elemento di deresponsabilizzazione molto importante, che riguarda la cultura imprenditoriale di questi territori. Un altro aspetto che emerge in maniera nitida dall’inchiesta Aspide riguarda l’allargamento territoriale. Noi non siamo più di fronte a territori localizzati ma a territori che si espandono come fisarmoniche e che riguardano larghi raggi. Già dagli inizi degli anni Novanta sappiamo del fenomeno della delocalizzazione e del trasferire le produzioni in Est Europa; questa è una pratica diffusissima, che ha riguardato anche Aspide e che ha una capacità di interconnettere su largo raggio affari, business e che, sicuramente, rappresenta un elemento di deresponsabilizzazione rispetto alla comunità locale. Un imprenditore, che non è più situato nel territorio in cui è cresciuto e in cui ha relazioni sociali ma va a lavorare in Romania, non ha più nessun obbligo sociale di rispettare una certa cultura del lavoro. Da questo punto di vista, introietta all’interno della sua auto percezione imprenditoriale quella dell’uomo di frontiera, dell’uomo che deve affrontare nuove sfide, costi quel che costi!
Anche l’idea di lavorare su più Paesi e con diverse legislazioni è sicuramente un fattore di apprendimento di pratiche illegali, che costituisce un aspetto abbastanza importante. Quelli che, in questi anni, si sono trasferiti nei Paesi dell’Est non sono soltanto il singolo imprenditore e il singolo stabilimento ma uno sciame di consulenti, commercialisti, intermediatori, addetti alla sicurezza, eccetera. Una nuvola di personaggi – e questo è un altro aspetto da tenere presente – che rappresentano un fattore decisivo del funzionamento delle pratiche imprenditoriali.
Ad esempio, la capacità di Aspide di tenere connessioni e contatti con tutta una serie d’imprenditori passa attraverso il ruolo fondamentale di commercialisti, intermediatori d’affari, consulenti. Tutta una serie di personaggi che non sono propriamente e professionalmente imprenditori ma che hanno, negli ultimi anni, un ruolo sempre più preminente nella composizione aziendale e nella composizione d’impresa. Questo perché, probabilmente, il punto di vista dell’impresa non è più quello di migliorare la produzione, rimanere sul mercato, vendere ma è invece quello di acquisire e riconsolidare un numero di relazioni sempre più importanti con l’apparato politico-amministrativo, intercettare fondi europei, avere la capacità di muoversi verso settori protetti che li garantiscano da quella competizione esasperata di cui parlavo prima, che comporta una sempre maggiore ristrettezza di ossigeno.
Si assiste allora a un mutamento della missione imprenditoriale, che si sposta sempre più in settori protetti e riguarda una maggiore commistione con l’apparato politico, in cui la capacità di netwoorking delle associazioni mafiose ha sicuramente un ruolo potenzialmente interessante.
Poi, ovviamente, c’è la questione dell’accesso al credito. Penso al caso di un imprenditore che è finito a chiedere soldi ad Aspide perché, nonostante avesse una copertura di Artigianfidi, la banca si è rifiutata di concedergli un prestito di poche migliaia di euro! Stiamo parlando di 10mila euro totali, di cui 7.500 coperti dalla Cassa artigiana…in buona sostanza alla banca aveva chiesto solo 2.500 euro. Capite di che cifre parliamo!? Sentendosi rispondere di no lui, allora, è andato da Aspide.
Questo è un altro aspetto non da poco: sappiamo anche quanto le banche siano esposte rispetto a tutti i progetti di project financing, alle grandi opere che danno un rendimento assicurato con il meccanismo di copertura da parte dei finanziamenti statali! E poi non si trovano 2.500 euro per un artigiano!
Nel Veneto il dibattito sulle mafie è molto arretrato, perché le evidenze empiriche sono poche e non è emerso – vista l’esiguità delle inchieste giudiziarie – granché di tali dinamiche. Siamo di fronte a quello che noi chiamiamo un paesaggio di ombre, sospetti, attribuzioni. La mafia c’è ma non si capisce dove sia. Certo, ci sono degli incendi, delle intimidazioni, dei personaggi che girano con tanti soldi, eccetera. Però, questo tipo di meccanismo, che riguarda un paesaggio di ombre, secondo me, ha degli aspetti anche molti pericolosi!
Per esempio, porta con se l’attribuzione a un corpo estraneo l’essere il solo promotore e il solo responsabile del decadimento, della fragilizzazione del sistema economico e del sistema di convivenza che, tutto sommato, abbiamo vissuto finora. Si attribuiscono all’esterno problemi che tali non sono! Tutto questo riguarda, invece, in pieno le dinamiche interne al sistema produttivo e alla dimensione culturale della mia regione.
Continuare a utilizzare la metafora delle mafie come un virus che attacca un corpo sano è sostanzialmente un meccanismo deresponsabilizzante! Io penso che sia molto più interessante utilizzare un’altra metafora, sempre di ambito medico: le mafie possono essere descritte come un liquido di contrasto, che nelle analisi e nella Tac, quando si cerca di capire cosa non va, illuminano le tracce di malattia. Un liquido di contrasto che è un gradiente della corruzione e della instabilità, delle dinamiche esplosive di un sistema.
Spesso nel dibattito pubblico – almeno dalle mie parti – l’etichettare la questione come un problema di organizzazioni criminali esterne permette di rimuovere il problema, consente di non sentirsi costantemente sull’orlo della baratro.
C’è un sistema che non funziona più, che si è ingrippato nel profondo e che non sappiamo nominare, allora invochiamo il ruolo delle organizzazioni mafiose! Questo non vuol dire che le organizzazioni mafiose non operino e non abbiano un ruolo rilevante all’interno del sistema economico della mia regione – anche se le inchieste giudiziarie fino ad adesso non l’hanno illuminato fino in fondo – ma significa che dobbiamo riuscire a connettere problematiche diverse, che pongono soprattutto il problema rispetto al contesto.
Bisogna uscire da un’analisi criminologica, che è quella di pensare alla sindrome dell’autore :c’è un delitto, c’è il mafioso; c’è l’usura, c’è il mafioso; c’è l’estorsione, c’è il mafioso. No, non è così! Nell’usura, peraltro, non c’è una vittima molto spesso: se si vanno a guardare le carriere imprenditoriali dei diversi soggetti finiti in pasto a Aspide, emergono carriere fatte di fallimenti pilotati, truffe, tentativi di rimaner a galla comunque, si vede uno spaccato imprenditoriale profondamente intriso di dinamiche di illegalità! È proprio su tale connessione che occorre continuare a vigilare e ad approfondire l’analisi. Vi ringrazio.