Francesco Giavazzi risulta convincente. Calma, non stiamo parlando di uno dei tanti editoriali del Corriere della Sera firmati dal celebre economista in cui chiede (con indubbio successo) alla sinistra di diventare compiutamente liberista (c’è stato, va detto, una qualche lieve correzione di rotta qui), ma del recente libro «Corruzione a norma di legge» scritto a quattro mani con il giornalista Giorgio Barbieri. Il sottotitolo è esplicito: «La lobby delle grandi opere affonda l’Italia» e così l’analisi che si concentra quasi esclusivamente sulla vicenda Mose – anche se non risparmia la Tav – e rappresenta non solo un utile riepilogo della storia di una delle più clamorose rapine al patrimonio pubblico nel nostro paese, ma anche una rigorosa messa a fuoco di alcune questioni nodali.
Giavazzi e Barbieri infatti inquadrano la vicenda del Mose all’interno di una consolidata influenza della lobby, imprenditoriale e politica, delle grandi opere in grado di piegare la legislazione – dettagliata la ricostruzione degli interventi legislativi utili a perpetuare il monopolio del Consorzio Venezia Nuova – all’interesse di alcuni rendendo le pratiche corruttive formalmente «legali».
Interessante l’analisi sulle differenze tra vicenda Mose e Tangentopoli con il crescente ruolo assunto negli ultimi anni da parte dell’apparato burocratico e convincente la critica alla retorica della rapidità delle decisioni e dell’esecuzione – celebrata da un’intera classe politica – che ha in questi anni nascosto la manipolazione di leggi e regole utile al dilagare del malaffare. Non manca neppure una critica, ben documentata, alla perpetuata cantilena sul «deficit di infrastrutture» di cui soffrirebbe l’Italia e che ha imposto la necessità di aprire con urgenza cantieri come si trattasse di un’emergenza nazionale.
Un libro utile, ben documentato, da leggere, ma…e beh, non può filare tutto liscio…se la ricostruzione è convincente e la critica tagliente – gli autori non mostrano riguardi per nessuno e mettono a nudo la responsabilità della classe politica di centrodestra e di centrosinistra (e il loro inesorabile intrecciarsi) – qualche perplessità al termine della lettura emerge e proviamo ad esplicitarla:
a) Gli autori distinguono efficacemente tra la corruzione «per infrazione delle regole e la corruzione delle regole stesse». Il secondo tipo di corruzione è più ambiguo e più pericoloso e, nel caso dell’azione delle lobby, non vi è neppure uno scambio di denaro ma di informazioni e di relazioni. Relazioni pericolose tanto che si assiste frequentemente, segnalano gli autori, al passaggio di ruoli da politici a lobbisti e viceversa. Se sul piano dei processi concreti assistiamo quindi ad un surplus di influenza dei portatori d’interesse economico, sul piano più generale, a cui però gli autori non accennano, siamo di fronte a mutamenti strutturali che hanno portato alla ribalta le ragioni delle efficienza e del mercato a scapito dell’autonomia delle istituzioni. Il ribaltarsi del secolare equilibrio tra tra potere politico e potere economico (e la conseguente «economizzazione della politica» come l’ha definita Gianfranco Poggi) non è forse un fenomeno da segnalare all’interno di un discorso sulla corruzione?
b) nel libro la questione Mose viene affrontata esplicitamente come frutto un «sistema» e gli autori evitano di presentare, come fanno correntemente i media, la corruzione come una serie di scandali isolati. Risalta però una sorta di «caso italiano» come se la corruzione non accompagnasse, con modalità complesse e non lineari, la storia dello sviluppo capitalistico. Galbraigth scriveva che nel mondo degli affari corruzione e malversazione sono come gli scogli nel mare, ci sono sempre ma si vedono solo quando c’è la bassa marea. La globalizzazione neoliberista – non da ultimo a causa dell’inesistenza di uno stato di diritto globale- ha determinato la piu grande esplosione di corruzione che la storia abbia visto fino a oggi, afferma l’analista Werner Rugmer. Ci domandiamo così se la corruzione non sia in realtà uno degli strumenti correnti dell’agire nel mercato e se lo sia a maggior ragione in una situazione di crisi – o di funzionamento variabile – delle sovranità statali a fronte della globalizzazione e finanziarizzazione degli scambi (utilizzati ad esempio nel sistema Mose con la creazione di conti esteri in cui far transitare i soldi). Saremo così di fronte ad una sorta di «turbocorruzione», effetto di un cortocircuito tra economia e politica che ha tagliato fuori, superandole come obsolete, le istituzioni democratiche con le loro pretesa di universalità.
c) Gli autori avanzano alcune proposte che riguardano la regolamentazione degli appalti individuata quest’ultima come il cuore di tenebra del sistema degli appalti. Non c’è dubbio che la questione degli appalti, e di come sono regolamentati, sia strategica. Lo svuotamento della legge Merloni è stato uno dei passaggi fondamentali per ridare fiato alle cricche dopo tangentopoli. Ma vi è un altra questione – a parere di chi scrive ancora più dirimente – ed è quella della trasparenza e della democrazia. La corruzione rappresenta la forma più radicale di privatizzazione delle decisioni sui beni comuni e la conseguenza sono scelte che non risulterebbero convincenti in un libero dibattito non viziato da dinamiche corruttive (il caso del Mose è evidente così come quello del Passante).
La turbocorruzione ha origine nella trasformazione culturale che ha sostituito l’autorità con l’efficacia, la legalità con l’interesse privato, i diritti di cittadinanza con le opportunità individuali.
Pensa chi scrive che per combattere la corruzione occorra aver chiaro che l’illegalità sia stata resa sistema come nuova via di affermazione diretta del potere economico.
Un’affermazione diretta, un puro dominio (qui) che si sta in questi anni liberando dalle catene di forza – ovvero dalla trama dei diritti collettivi che ha protetto la società dal potere del mercato – che lo hanno costretto in questi decenni.