«Sono nato in una strada dell’Europa» scriveva il poeta friulano Celso Macor in una sua lirica. Una lirica scritta al solito in «sonziaco», varietà del friulano parlata nell’area della destra Isonzo. Un pugno di terra attorno a Gradisca d’Isonzo, accanto a confini antichi e intricati, dove il poeta sentiva l’Europa.
Era nato da quelle parti il dialettologo Graziaddio Isaia Ascoli, ebreo goriziano, che, in polemica con il Manzoni, consigliava il formarsi di una lingua nazionale come apporto delle diverse parlate locali. Un approccio «federalista» rispetto all’imposizione del fiorentino come modello linguistico unico.
Coltivare lingue locali non significa erigere piccoli muri. Oggi l’Europa è percepita come un bancomat bizzoso, nel migliori dei casi, e le lingue locali sono usate per cementare identità particolari ed escludenti. Luca Zaia – trevigiano, leghista, ministro dell’agricoltura – ha fatto parlare di sé, durante la campagna elettorale, per la richiesta che il dialetto veneto divenisse materia obbligatoria nelle scuole.
Il gruppo della Lega Nord nel consiglio regionale del Veneto ha presentato un progetto di legge che si propone di modificare la legge nazionale sulle minoranze linguistiche, la legge 482 del 1999. In pratica la Lega chiede che il veneto venga inserito tra le attuali 12 minoranze storiche riconosciute dalla legge: albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo. Il consiglio regionale del Veneto dovrebbe approvare il progetto – comunque osteggiato da parte della maggioranza come i reduci di Alleanza nazionale – per poi essere ratificato dal parlamento nazionale. Una procedura tortuosa che con tutta probabilità si perderà a metà strada anche, c’è da scommetterci, per la scarsa perseveranza dei proponenti [qualcuno sa che fine ha fatto il progetto della moneta «parallela» all’euro proposta sempre dalla Lega qualche anno orsono?].
Intanto la proposta ha fatto capolino tra le maglie della politica spettacolo e, visto che la campagna elettorale era per le europee, qualche dirigente ha fatto appello alla Carta europea delle lingue regionali e minoritarie approvata dal parlamento di Strasburgo nel 1992 [e non ancora ratificata dal parlamento italiano]. Oggi, ad elezione avvenuta, i leghisti hanno già detto quale sarà la priorità della pattuglia di europarlamentari in camicia verde: fermare lo straniero, non certo coltivare la biodiversità delle espressioni linguistiche.
Già nel 2007 la Lega aveva fatto approvare un pacchetto di provvedimenti per «diffondere la lingua veneta, sostenere ricerche relative alla grafia ufficiale della lingua veneta e al suo uso e ripristinare la toponomastica veneta». Il provvedimento prevede «l’istituzione di speciali sezioni nelle biblioteche pubbliche locali, l’edizione di pubblicazioni specializzate, la redazione di trasmissioni televisive e radiofoniche e l’istituzione della ‘Festa del popolo veneto’ da celebrare il 25 aprile, giorno di San Marco».
E’ difficile capire il consenso che questi provvedimenti possono avere, di certo alleviano la frustrazione, relativamente diffusa, da parte dei veneti per essersi sentiti per anni denigrati e derisi per la loro appartenenza periferica. Una dialettologa dell’università di Padova, Gianna Milani, ha scoperto che è stato a Porto Marghera , la grande fabbrica del nordest, che i dialettofoni hanno sentito per la prima volta, e sofferto, la propria inferiorità rispetto ai parlanti l’italiano – padroni, capireparto, sindacalisti – e non se la sono più tolta di dosso quella sofferenza. «Un senso d’inferiorità – racconta Gianna Milani – che ha fatto vergognare dei propri genitori dialettofoni a colloquio con gli insegnanti, un paio di generazioni».
Ignorare quella sofferenza è stolto, e un po’ inumano. Quando Fausto Bertinotti, da presidente della camera dei deputati, ha spento il microfono del leghista Federico Bricolo che interveniva in dialetto – «Mi son veneto, sior president, parlo la lingua dei miei padri» stava dicendo – non si è accorto che non stava togliendo la parola a lui – rappresentante di un mix mostruoso di nazionalpopulismo razzista -, ma a migliaia di veneti figli di una storia di esclusione che Bricolo – perché solo lui? – stava portando, – anche se in forma distorta ed escludente, oltre che filologicamente scorretta – alla luce.
Durante la discussione, in consiglio regionale del Veneto, dei provvedimenti per «diffondere la lingua veneta» Gianfranco Bettin, consigliere dei Verdi, intervenne parlando in dialetto – in veneziano variante mestrina, immagino, visto i suoi natali – e in inglese e facendo così impazzire gli stenotipisti del consiglio regionale e il presidente dell’assemblea, il leghista Marino Finozzi. E’ noto, le istituzioni mal sopportano le differenze, e quindi, verrebbe da chiedersi, perché domandare proprio alle istituzioni di tutelarle?
Bettin intendeva criticare la legge perché inefficace al fine di tutelare «il pluralismo delle lingue venete, la ricchezza e la varietà del nostro patrimonio culturale». Chissà come, argomentava Bettin, la legge si era dimenticata di grandi scrittori e poeti come Giacomo Noventa, Biagio Marin, Luigi Meneghello, Andrea Zanzotto e Mario Rigoni Stern. Persone che, come Celso Macor, percorrevano, e percorrono, le strade d’Europa parlando la lingua di casa senza sentirsi stranieri. Camice verdi permettendo.
Giugno 2009 – Carta