Luca Zaia presidente del Veneto. Ritratto di un leghista no global

Il suo piglio presidenziale e la cura maniacale nella comunicazione sono ormai una barzelletta: racconta Sergio Frigo, giornalista del Gazzettino, che Luca Zaia, all’inaugurazione di una rotonda stradale, quando era ancora il giovane presidente della provincia di Treviso, volle, a beneficio di fotografi e giornalisti, manovrare di persona la scavatrice. Finì però per tranciare inavvertitamente alcuni cavi elettrici e provocare così un vasto blackout nella zona.

Tuttavia, il leghista candidato del centrodestra alla presidenza del Veneto non è certo una persona da prendere sotto gamba. Il suo libro, «Adottare la terra [per non morire di fame]» [Mondadori, 113 pagine, 17 euro], è arrivato nelle librerie in questi giorni, giusto in tempo per la volata finale verso le urne. Leggendo il libro si ricava un’impressione precisa: da movimento politico che dà voce e amplifica il sordo rancore di chi soffre il disorientamento della globalizzazione, la Lega sta compiendo il salto, divenendo solida forza di governo delle trasformazioni.

Nel volume, di agile lettura, si parla di agricoltura, filiera corta, comunità locali, identità: l’armamentario classico di certa destra identitaria, con il necessario e consolidato corollario della critica alle élite intellettuali e alla sinistra, colpevole di «aver sbrigativamente sostituito Marx con Wall Street» [il richiamo alle fatiche intellettuali di Giulio Tremonti, anche se mai esplicito, è evidente]. Vengono arruolate, tra gli altri, Vandana Shiva e Simone Weil.

Tra «difesa delle comunità locali» e critica dei «talebani del liberismo», il ragionamento prende le mosse dalla sua esperienza di ministro dell’agricoltura e dalla sua passione per l’agricoltura e il mondo contadino, esibendo così il suo impegno contro gli Ogm e a favore delle quote latte o della tutela dei prodotti tipici. La conclusione è: moderiamo, con i dazi ad esempio, i meccanismi di mercato, recuperiamo la saggezza antica del mondo contadino, rivalutiamo il lavoro della terra e le economie locali senza sconfinare nell’«estremismo ambientalista» [della serie: gli accordi con MacDonald’s si devono pur fare]. Nel Veneto impaurito e scosso dalla crisi questo messaggio rassicurante – «la politica riprende il suo ruolo, non si può far fare tutto al mercato» – funziona, e arriva puntuale dopo quindici anni di governo di Giancarlo Galan, di Forza Italia, ideologicamente allergico ad ogni programmazione [«meno interveniamo meglio è», era il refrain di Galan, vincente in epoca di vacche grasse ma zoppicante in questi ultimi anni ].

La differenza tra Zaia e altri leader veneti del Carroccio – si pensi al ringhiante sindaco di Verona, lo xenofobo Flavio Tosi – non sta tanto nel suo presunto «moderatismo», come molti dicono. Giova ricordare che, commentando la proposta di riconoscere il diritto al voto amministrativo per i migranti, Zaia ebbe a dire: «Questi signori non hanno ancora capito che qui sono ospiti. Concedere questo diritto significherebbe accordare loro la possibilità di decidere su cose nelle quali sono attori indifferenti». Non siamo agli insulti di Giancarlo Gentilini, ma la sostanza è la stessa.

Piuttosto, aver messo al centro la «terra» anziché la «sicurezza» – oltre a fornirgli un profilo ideologico più netto e consapevole – consente a Zaia di dialogare più ad ampio raggio e di effettuare incursioni in campi altrui. Non solo con ampi settori più che compiacenti della Chiesa – la prefazione del libro è affidata a padre Enzo Fortunato, direttore della sala stampa del convento francescano di Assisi – ma anche più distante: in piena campagna elettorale Zaia ha assicurato, civettuolo, che avrebbe pescato voti in area «no global». La questione, al di là dei proclami, ha una sua pregnanza: l’ha rilevata il direttore di Altraeconomia, Pietro Raitano, che, pubblicando sul suo giornale un’intervista a Zaia, si è domandato come possa accadere che «un partito come la Lega abbia fatto propri i nostri temi? Come mai usa il nostro linguaggio, le nostre parole?».

La difesa delle campagne significa difesa dell’identità veneta. In Veneto come altrove il peso dell’agricoltura, numericamente come economicamente, nella società e nell’economia è limitato. Ma il potere evocativo dell’immaginario dei campi è fortissimo: grazie al martellamento di intellettuali come Ulderico Bernardi [arruolato da Luca Zaia] l’«identità veneta» diviene tout court contadina e quindi moderata, laboriosa, pacificata e credente. Studi più accurati come quelli dell’antropologa Nadia Breda o dell’ambientalista Renzo Franzin suggeriscono, ignorati dai più, radici più complesse e richiamano un Veneto da sempre poliforme culturalmente ed economicamente [da secoli c’è un Veneto operaio e non solo a Porto Marghera] e non sempre pacificato [val la pena di ricordare le lotte contadine in difesa dei beni comuni contro la Serenissima].

Grazie a questa operazione ideologica si è costruito il sogno di una comunità organica e pacificata: tradotto facilmente nell’odierno incubo delle ronde e delle recinzioni. La capacità «espansiva» di Zaia non nasce nel volgere di un mattino, affonda le sue radici nell’ambiente culturale trevigiano dove opera Giuseppe Covre, ex sindaco di Oderzo [Treviso], ricercato opinionista, definito «leghista eretico» per il suo ribadire i limiti dello sviluppo, ed è attiva la casa editrice «Santi Quaranta» – «l’Adelphi del nordest», come viene chiamata – espressione di un venetismo meno raffazzonato di quanto si sia abituati a sorbirne.

Non è un caso il lungo e appassionato tributo che Zaia dedica, nel suo libro, a Bepi Mazzotti, prestigioso intellettuale trevigiano, difensore del paesaggio e delle memorie, morto nel 1981, nume tutelare di questi ambienti. Scordatevi la Lega «primitiva e rozza»: anni di tradizionale «scuola quadri» di partito ha prodotto decine di dirigenti e amministratori senza timori reverenziali nei confronti dei loro concorrenti.

I sondaggi danno Zaia vincente col 60 per cento dei voti, la Lega sopra il 30 per cento, il Pdl in caduta libera con 10 punti sotto l’odiato alleato e il candidato del centrosinistra, Giuseppe Bortolussi, leader degli artigiani di Mestre, inchiodato intorno al 30 e che, quasi autisticamente, continua a proclamare «facciamo l’impresa», mentre si allarga il fenomeno degli imprenditori suicidi grazie alla crisi economica.

L’egemonia della Lega da queste parti viene percepita come talmente ovvia che i principali antagonisti, l’Udc e il Pd, hanno impostato una comunicazione esplicitamente contro di lei [«Slega il Veneto» chiede il primo, «La Lega vuol tirarci il bidone», a proposito del nucleare, il secondo]. I rapporti di potere non saranno così semplici nel dopo voto: i numeri non sono tutto e il sistema di potere costruito in quindici anni da Giancarlo Galan non si squaglierà da un momento all’altro come la neve al sole delle Alpi. La ristretta lobby di costruttori che si è accaparrata in questi anni ospedali e autostrade in project financing avrà qualcosa di più che «voce in capitolo» sulle scelte future. Come ha dichiarato sarcastico Franco Frigo, navigato politico del Pd, «la Lega non potrà assumere nemmeno gli imbianchini», visto che tutto è già stato ipotecato dalla gestione Galan.

«Prima il Veneto» è lo slogan di Luca Zaia e rimbomba da tutti i muri della regione. La filiera corta non sembra incompatibile con il sistema castale ed escludente che i leghisti hanno in mente, dove il penultimo, l’immigrato regolarizzato e con contratto regolare [il buon vicino di casa albanese citato spesso da Luca Zaia], criminalizza l’ultimo, lo schiavo impiegato nei campi della pianura veronese a raccogliere, per 4 euro all’ora, il radicchio, prodotto della tradizione veneta e perciò tutelato. Il radicchio. Non lo schiavo.

Aprile 2010 – Carta

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