Alla conclusione della prima guerra mondiale venne istituita la cerimonia del milite ignoto: tra i tanti cadaveri rinvenuti sui campi di battaglia se ne scelse uno che, da allora, nell’immaginario popolare, rappresenta tutti i soldati morti in guerra e rimasti senza nome.
La salma venne trasporta dal Friuli a Roma per essere tumulata, presso il Vittoriano, il 4 Novembre del 1921. Durante il viaggio migliaia di persone si radunarono nelle stazioni di transito per rendere omaggio a quel figlio del popolo, morto in guerra e rimasto sconosciuto. Con acuta amarezza Isnenghi e Rochat, ne La Grande Guerra, scrivono: “i riformisti Bonomi e Gasparotto (i promotori di questa iniziativa. ndr) possono ritenere di aver portato a buon fine – con il massimo di partecipazione consentito dalle circostanze – un rito corale di cordoglio nazional-popolare, pacificando le memorie in conflitto: chiudendo il dopoguerra più irto di contrapposizioni frontali e mettendo a dimora un simbolo permanente a carattere universale”[1].
Fu necessaria la costruzione di un grande mito, come quello del Milite ignoto e di tutta la retorica che lo accompagna, per tenere insieme i ricordi, il lutto e il trauma di un paese intero: una regia sapiente che costruì il rito perché gli italiani potessero comunicarsi, e così quietare, l’enorme sofferenza subita. A guerra conclusa vennero eretti in ogni contrada e in ogni città monumenti ai caduti. Ma non erano tutti uguali: molti di questi erano semplicemente dei messaggi di dolore e rispetto per i poveri cristi che con le buone o (spesso) con le cattive erano stati mandati a morire come bestie per la patria.
Questi monumenti, figli dell’umana pietà e della semplicità delle genti, furono distrutti dalla furia fascista che della guerra volle ricordare solo la retorica dell’eroe: strumento indispensabile, questo, per poter mandare, nella guerra che seguì, altri poveri cristi a morire come bestie.
Insomma, i morti in guerra e la retorica che li accompagna sono terreni di battaglia a loro volta: da una parte c’è una comunità che piange i suoi morti e con questo elabora il suo dolore e il suo smarrimento; dall’altra, c’è chi, dai troni e dagli altari – che la storia evidentemente né muta né scalfisce – costruisce le sue strategie che passano, ancora una volta, per la costruzione di miti, l’imposizione di una memoria “ufficiale”, l’illusione di una condivisione d’interessi, la mistificazione di una missione irrinunciabile da portare a termine. Strategie che nulla hanno a che fare con la capacità delle persone di compartecipare al dolore altrui. Questa capacità è miracolosamente ancora viva nonostante la quotidiana offerta, a domicilio e in diretta, dello strazio universale trasformato in spettacolo.
La sfida, per una collettività che voglia trovare il senso di abitare un luogo condiviso, è quella di tener fermo lo sguardo, desta la capacità critica e disponibili i sentimenti davanti all’umana sofferenza. Non quella di esibire il cordoglio.
2004 il Mattino
[1][1] Mario Isnenghi, Giorgio Rochat, La Grande Guerra, Milano, 2000, p. 495