Perché il radicchio arrivi sui banchi dei mercati pulito e invitante occorre lavarlo, togliere le foglie marce, la terra e le radici. Maria P. [il nome è di fantasia] faceva questo lavoro, 12-14 ore al giorno, intirizzita dall’acqua e dal freddo. Ha resistito 9 mesi. La paga di circa 4,5 euro all’ora, quasi tutte in nero. Siamo nella bassa padana, tra le province di Padova e Verona, campi a perdita d’occhio, risultato della tenace bonifica di queste terre strette tra l’Adige e il Po.
Il magazzino dove Maria P. lavorava fin dalle 7 di mattina era intriso dell’acqua per sciacquare il radicchio e Maria alle 8 era già bagnata fino al midollo e buona parte dell’ora e mezza di pausa l’impiegava ad asciugarsi. Alla fine del lavoro, la sera tardi, alle volte anche mezzanotte, c’era la fila per le 3 docce da condividere con 23 ragazze, tutte serbe, che vivono nella casa accanto all’azienda. «Condividevo con tre ragazze una stanza dove dormivamo su due letti a castello, c’era giusto lo spazio per scendere dal letto – ricorda Maria P. – e per tutte noi c’erano 3 fuochi nella cucina economica per cucinare e alla fine mangiavi sempre panini».
Lo sfruttamento più bieco é la somma di mille perfidie che incrina colpo su colpo la dignità delle vittime. Maria P. acquistava a sue spese i guanti, gli stivali, i coltelli e i grembiuli necessari al suo lavoro, «lavorando con il coltello tagliavo un paio di guanti, che costa 99 centesimi, ogni 3 o 4 ore, ogni giorno in guanti spendevo un’ora di lavoro». Una volta alla settimana potevano andare a fare la spesa in paese, ma tutte insieme in corriera, «entravamo in negozio per la spesa e subito di ritorno a casa» racconta.
Maria P. resiste 9 mesi in quell’inferno e poi, avvertendo solo la sera prima per paura di ritorsioni, «scappa». Il padrone incontrandola per strada qualche giorno dopo «mi ha minacciato di non presentarmi più». «Il padrone era minaccioso e violento» e Maria P., ancor oggi, dopo due anni, ha paura e per questo non rivela il nome dell’azienda e nemmeno il paese. Sa che l’azienda c’è ancora, ci sono altre donne nelle condizioni di prima. «Pesavo 47 chili e mi sentivo malata, era impossibile rimanere in salute in un posto così» ricorda Maria P.
Assieme a Maria P. incontriamo nella piccola sede della Cgil di Monselice, tre ragazzi moldavi. Sono qui da pochi mesi, non parlano italiano e per questo ci facciamo aiutare da un interprete. «Abbiamo trovato lavoro grazie ad un ragazzo rumeno – raccontano – che ha preteso 1500 euro a testa per l’intermediazione. Siamo finiti in un’azienda della bassa padovana, a raccogliere radicchio nei campi». I ragazzi avevano concordato una paga oraria, 4,5 euro, ed invece ricevevano 4 euro e 13 centesimi e lavoravano 12-14 ore nei campi a raccogliere radicchio. Erano 18 a lavorare per quell’azienda e 11 di questi, stranieri, alloggiavano in una casa del padrone lì vicino e dovevano pure pagare l’affitto, 150 euro al mese. «Alle nostre rimostranze, il padrone rispondeva ‘se non vista bene ritornate pure da dove siete venuti’».
Ed è così che qualche giorno fa hanno deciso di mollare. Forse torneranno a Mosca dove facevano i muratori, erano venuti in Italia sperando di poter mettere via un po’ di soldi, sapevano di dover lavorare duro, ma una situazione così, nel ricco occidente, non potevano immaginarla.
«Non sono casi isolati – chiarisce Andrea Gambillara del sindacato degli agricoltori della Cgil di Padova -, purtroppo nell’agricoltura la situazione è anche questa». Gambillara ci tiene a sottolineare che esistono aziende che lavorano bene, ma vi sono alcuni dati che fanno pensare. «Anche nell’agricoltura c’è crisi – racconta Gambillara -, soprattutto per quanto riguarda i cereali, ma il valore e la produzione del radicchio sono aumentati anche in questi anni. Per questo non mi spiego perché diminuiscano le ore lavorate». «Non si può dire che c’entri l’aumentato dell’uso delle macchine che – puntualizza il sindacalista – è diminuito in questi anni».
Gli immigrati sottopagati costano meno dei trattori, viene da pensare. E comunque sono tutti indicatori, quelli enumerati da Gambillara, dell’esistenza di un mercato del lavoro se non altro «inquinato» – a voler essere indulgenti – da fenomeni di pesante sfruttamento e che su questo una quota di imprenditori agricoli ‘padani’ basa la capacità di competere. L’insalata coltivata a Borgoricco, ad una manciata di chilometri da Padova, nel giro di 6 ore è nelle tavole degli olandesi: è un gioco duro, soprattutto per chi sta in fondo, in mezzo ai campi.
Il settore agricolo è più esposto di altri al lavoro nero e allo sfruttamento, ne sa qualcosa Giuseppe, che lavorava in una fabbrica e dopo il licenziamento, 15 anni fa, ha trovato posto in una azienda di florovivaismo. «Ho capito subito che le tutele a cui ero abituato in fabbrica – racconta – qui in agricoltura te le devi scordare». «Una persona che ha un contratto a termine di 60 giorni – ci spiega Gambillara – può figurare che ne ha lavorati solo 10 perché ha piovuto o perché il raccolto non era pronto. Gli altri giorni sono in nero, oppure se non piaci al padrone perché richiedi ciò che ti spetta può lasciarti a casa con una scusa».
Per gli immigrati le cose vanno, ovviamente, anche peggio, il permesso di soggiorno è legato al contratto stagionale, una volta interrotto questo per qualsiasi motivo scatta l’obbligo di ritorno in patria. «Questo vuol dire – racconta Gambillara – che un immigrato se lavora in una condizione di sfruttamento non può cercarsi un altro posto perché quando il contratto viene interrotto, da lì a poco diviene clandestino».
Quando Alessandra Stivali, responsabile dipartimento immigrazione della Cgil di Padova, dopo i fatti di Rosarno commentò che anche a nordest esistevano episodi di pesante sfruttamento in agricoltura, le organizzazioni degli agricoltori reagirono pesantemente sfidando la Cgil a dimostrare quelle dichiarazioni. I racconti che abbiamo raccolto dei ragazzi moldavi e di Maria P. – tutti rigorosamente anonimi perché impauriti – confermano le dichiarazioni della Stivali e dovrebbero consigliare alle organizzazioni agricole più prudenza.
«Abbiamo proposto alle organizzazioni degli agricoltori di applicare degli ‘indici di congruità’ – ricorda Gambillara -, per cui risulti il numero di lavoro minimo per lavorare una determinata superficie e una certa quantità di prodotto e evidenziare così i casi ‘strani’ dove evidentemente prevale il lavoro nero, ma i nostri interlocutori hanno fatto cadere la proposta». I controlli, poi, non sono semplici e negli ultimi mesi sono legate le mani agli ispettori. «In settembre del 2008 è passata un circolare dell’ispettorato del lavoro – rivela Gambillara – che raccomanda che ‘le ispezioni assumano un carattere informativo piuttosto che punitivo’. Un indirizzo politico chiaro dettato agli ispettori di andare incontro alle esigenze delle aziende». Non solo: tra le recenti norme per la semplificazione amministrativa è stato pure abolito l’obbligo della tenuta giornaliera o settimanale dei registri dell’Inail dove annottare le presenze e le ore lavorate dai dipendenti, che ora possono essere aggiornati mensilmente. E così se un ispettore scopre delle irregolarità tra persone che lavorano in un campo e persone risultanti nel registro, il titolare può affermare che deve ancora aggiornare il registro.
«Lo sfruttamento degli immigrati danneggia anche noi, i garantiti – racconta Giuseppe che ha il «privilegio» di avere un contratto a tempo indeterminato -, se gli immigrati, riccattati e senza sostegno, escono nei campi anche sotto la pioggia, il padrone ci chiede: ‘se loro escono, perché voi no?’»
Febbraio 2010 – Carta