Vi siete mai chiesti perché chi accoglie e chi viene accolto condividono lo stesso nome: “ospite”? Non è un capriccio della lingua. È così da millenni: già in latino hospes indicava contemporaneamente chi apriva la propria casa e chi vi trovava riparo. Un’unica parola per due ruoli che oggi percepiamo come separati, ma che in origine erano intrecciati da un patto di reciprocità. Accogliere non era una concessione magnanima: era uno scambio, un legame che impegnava entrambi. Un gesto sacro, al punto che nell’antica Grecia Zeus stesso vegliava sull’ospitalità, pronto a punire chi tradiva quel dovere morale.
A custodire oggi quello spirito — pur in forme nuove, adattate ai tempi — ci sono gli attivisti di Welcome Refugees. Un movimento internazionale nato per favorire l’ospitalità in famiglia di persone che attraversano una fase temporanea di vulnerabilità: sei mesi, che possono prolungarsi a dodici, non un’accoglienza strutturale, ma un pezzo di normalità condivisa.
A Padova il progetto è attivo dal 2017. Da allora sono 58 le convivenze organizzate: percorsi diversi, ciascuno con il suo equilibrio, ma tutti nati dallo stesso gesto iniziale — aprire una porta. Oggi due accoglienze sono in corso e quattro stanno per partire. Un progetto di accoglienza previsto per tutti, cittadini italiani come immigrati. “Il nostro compito è mettere in relazione chi offre ospitalità e chi la cerca, e poi accompagnare il cammino comune”, spiega Luca Lendaro, che segue direttamente le attività locali. “Restiamo un punto di riferimento costante: per consigli pratici, per chiarimenti, per risolvere piccoli problemi di convivenza e per sostenere la fase di distacco e di autonomia degli ospiti”.
Il 2024 ha segnato un salto di qualità: il Comune di Padova ha deciso di sostenere formalmente il progetto, creando insieme all’associazione l’albo delle famiglie accoglienti dove è possibile registrare la propria disponibilità. Un riconoscimento istituzionale che dà stabilità all’iniziativa e la mette a sistema. L’idea è semplice: offrire un periodo di sei mesi in cui la persona ospitata possa riorientarsi e recuperare autonomia. “Per molti è un tempo ponte — racconta Lendaro — e nella grande maggioranza dei casi funziona: ripartono con un lavoro, un alloggio, un piano sostenibile”.
Oltre all’accoglienza in casa Welcome Refugees propone la formula del Community Matching, abbinare un “autoctono” con una persona arrivata da poco a cui offrire indicazioni e supporto. Una relazione che poi diventa un’amicizia e non è mai a senso unico.
Offrire consigli e la propria rete di relazioni è la chiave per sostenere al meglio chi vuole raggiungere la propria autonomia. Conoscere chi abita in città, capire come funzionano i servizi pubblici, sapere a chi rivolgersi in caso di piccole necessità o come proporre le proprie abilità e competenze: insomma gli ospitanti sono anche guide informali per muoversi nel nuovo ambiente in cui ci si è ritrovati ad abitare. E le migliori guide sono sempre gli abitanti.
A chi decide di accogliere si chiede una stanza, il vitto e di mettersi in gioco. In cambio viene riconosciuto un piccolo rimborso spese. E infatti le storie che nascono durante una convivenza raramente si esauriscono allo scadere dei sei mesi o dei dodici. Alcuni legami si trasformano in rapporti di amicizia, altri restano come una memoria affettuosa. “L’accoglienza – riflette Lendaro – non è mai a senso unico: cambia la vita di chi arriva, ma anche quella di chi apre”.
In casa di Silvia è entrato il mondo, con un bel sorriso a velare grandi travagli. Parwiz è fuggito dall’Afghanistan mentre i talebani stavano prendendo possesso di Kabul. È uno dei tanti ragazzi che abbiamo visto, cinque anni fa, accalcarsi all’aeroporto nella speranza di prendere un volo. In questa casa – curata e vissuta – Parwiz ha trovato rifugio e Silvia ha trovato un amico. Parwiz arriva da un remoto villaggio sulle montagne afgane, bevendo un tazza di tè racconta – in un buonissimo italiano – il suo impatto con un mondo, il nostro, tanto diverso. Non si incrociano le spade, ma le risate nel raccontare gli equivoci e gli imbarazzi nell’incontro con questo strano modo di vivere. Nella semplicità emerge l’immediatezza della simpatia e dell’intesa anche se Silvia, per prepararsi a dovere all’ospitalità, ha frequentato un breve corso di etnopsicologia, “Welcome Refugees fa le cose per bene, sono molto seri” sottolinea.
Nell’antichità l’ospitalità era un patto, un impegno reciproco, una forma di alleanza. Ancora oggi, nella pratica quotidiana, questo significato antico può ancora vivere.
il Mattino di Padova 11 dicembre 2025