Templi, chiese e sale di preghiera. L’Arcella è convivenza tra religioni

Gli arcellani, soprattutto quelli con i capelli bianchi, più che all’Arcella abitano alla Santissima Trinità, a San Bellino, a San Carlo…insomma è la parrocchia il punto di riferimento.

E non è un caso: “la Democrazia Cristiana negli anni ’60-’70 ha finanziato le parrocchie all’Arcella come centri di aggregazione del nuovo quartiere che stava nascendo, infatti i patronati dell’Arcella sono molto spaziosi. La Dc non ha certo pensato di costruire dei centri civici pubblici” ricorda Settimo Gottardo che fu sindaco, democristiano, negli anni ’80.

A riprova di quanto afferma l’ex sindaco, perfino gli uffici dell’anagrafe di quartiere di via Curzola fino a pochi anni fa erano ospitati in locali di proprietà della parrocchia della Santissima Trinità”. Insomma i campanili sono ancora oggi il punto di riferimento e gli snodi dell’intelaiatura sociale del quartiere. Anche se, con il venire meno della presa religiosa sulla società, le parrocchie hanno dovuto rivedere funzioni e spazi. Come a San Carlo dove le ampie stanze del patronato sono state trasformate in frequentate aule studio.

Chissà se gli amministratori della Dc avrebbero immaginato che cinquant’anni dopo, accanto a quei presidi sociali e culturali che avevano fatto nascere con grande cura e molte risorse, sarebbero sorti altri luoghi religiosi, più piccoli, discreti e appartati, ma comunque luoghi di preghiera.

Shree Balaji Sanatani Mandir è il nome del tempio indù che scopriamo solo addentrandoci nell’intrico di capannoni ai piedi del cavalcavia di via Sarpi. Il tempio è custodito da Ramesh Shastri e dalla sua famiglia che hanno ricavato negli ampi spazi di un capannone industriale un luogo di raccoglimento dove trovano spazio le colorate statue delle divinità indiane. L’accoglienza è squisita. Sono circa 500 le persone che frequentano il tempio per le preghiere, ci spiega Ramesh Shastri che è impegnatissimo nell’organizzazione della festa, prevista per il 2 agosto, per l’anniversario della morte del suo maestro che ha vissuto a Mestre. Sono previste più di 5000 persone da tutta Europa.

Non ci allontaniamo di molto per raggiungere, in via Tunisi, una laterale di via Ticino, incastrata tra vecchi capannoni, la chiesa ortodossa dedicata a Santa Parascheva. Anche qui l’accoglienza di Padre Vasile Corja è cordiale. In via Tunisi dal 2016 si raccoglie la comunità ortodossa che fa capo al Patriarcato di Bucarest, oltre 120 persone, in maggioranza originarie della Moldavia, ma non solo, anche un paio di famiglie etiopi frequentano la Chiesa. “C’è interesse anche da parte degli italiani – racconta Padre Vasile – recentemente c’è stato anche un battesimo di un italiano adulto”. La grande sala contornata da icone di Santi è il frutto del duro lavoro dei membri della comunità così come la facciata in pietra. Al piano superiore le stanze per il catechismo. Per uomini e donne che vivono l’esperienza dell’immigrazione in Chiesa non si rivolgono solo gli occhi verso il cielo, ma ci si riconosce l’un l’altro, come sottolinea Padre Vasile “la Chiesa è il luogo più importante dove si ricrea comunità, ci si sente a casa”.

È segnalata da un’insegna simile ad un negozio la Chiesa Cristiana dello Spirito Santo che troviamo all’inizio di via Annibale da Bassano verso la Stazione. Si tratta di una chiesa evangelica pentecostale nata in Brasile negli anni ’70, brasiliani e africani di lingua portoghese, assieme ad oriundi italiani sono i frequentatori. Un’altra chiesa evangelica la troviamo dietro la chiesa di sant’Antonino poco dopo il cimitero. Due edifici spaziosi ospitano la Chiesa Cristiana Evangelica appartenente alle Assemblee di Dio in Italia (ADI) guidata dal pastore Michele Venditti, frequentata da fedeli italiani e di origine africana.

I flussi migratori non si limitano ad adattarsi alla città, ma la trasformano. Nel caso dei luoghi di preghiera islamici, tutto avviene con la massima discrezione, anche a causa della campagna d’odio subita negli anni. Dell’esistenza del centro islamico di via Jacopo Da Montagnana lo capiamo solo da un volantino scritto in tre lingue in cui si invitano i frequentatori a non soffermarsi all’uscita e tornare subito a casa.

Nel gennaio del 2016 la sede dell’associazione culturale del Bangladesh viene bersagliata da un attentato e nel luglio dello stesso anno l’allora sindaco Massimo Bitonci più che portare solidarietà effettua un sopralluogo annunciando “stringenti controlli sull’edificio” definito fatiscente.

Ritorniamo da dove siamo partiti, tra i capannoni ai piedi del cavalcavia di via Sarpi, per arrivare al Centro Culturale Islamico Al Farouq un luogo di aggregazione e non solo di preghiera. “Sono circa 300 le persone che vengono qui a pregare il venerdì – ci spiega Said Ajraouoi, presidente della comunità – di tutte le nazionalità, anche diversi italiani, questo è un luogo di dialogo e rispetto”. Il Centro culturale promuove periodicamente conferenze e presentazioni di libri. “Siamo impegnati nel dialogo intereligioso, abbiamo buoni rapporti con tutte le confessioni religiose che ci sono qui” racconta Said Ajraouoi. I destini delle diverse comunità si intrecciano nel medesimo luogo comune, il quartiere – e la città – che abitano.

Il Mattino di Padova 3 agosto 2025

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