Dannose al portafoglio e alla psiche sono invece manna per la criminalità organizzata. Un decreto dovrebbe porre un freno deciso al proliferare delle macchinette per i giochi e le scommesse online. Tra le altre cose, il provvedimento contempla la riduzione di almeno il 30% delle macchinette che erogano vincite in denaro (chiamate Awp dagli addetti ai lavori).
Segue direttamente la partita per conto del governo il sottosegretario veneziano Pierpaolo Baretta impegnato a superare resistenze prevedibili: gli interessi in gioco, è il caso di dirlo, sono impressionanti. E in Veneto in particolare.
Nel 2016 la raccolta nel settore delle Awp e delle Vlt – terminali connessi ad un sistema di gioco centrale e privi di “scheda di gioco” al loro interno – è stata di 49, 58 miliardi di euro, valore in aumento del 2,7% rispetto ai 48,2 miliardi del 2015. Nella classifica delle regioni dove si è giocato di più il Veneto si aggiudica il terzo posto, con 960 milioni di euro spesi in giocate, dopo la Lombardia, dove la spesa è stata di 2,1 miliardi di euro e il Lazio che ha di poco sorpassato il miliardo di euro.
Fetta consistente. In questo mercato una fetta consistente è di pertinenza della criminalità organizzata: lo certifica una recente relazione della Commissione parlamentare antimafia, ma anche inchieste giudiziarie come Gambling – promossa dalla Procura di Reggio Calabria – che ha squadernato l’interesse della criminalità calabrese nei giochi online. E individuato Padova come nodo nevralgico per il business ’ndranghetista. Gambling non è stata un’inchiesta qualsiasi: «Paradigmatica dei rapporti ’ndrangheta – mondo dell’imprenditoria», l’ha definita la Direzione nazionale antimafia. Impressionante il sistema messo in piedi: alla conclusione di quell’indagine venne operato il sequestro di 11 società estere e 45 aziende operanti nel settore dei giochi e delle scommesse su tutto il territorio nazionale, oltre 1.500 punti commerciali per la raccolta di giocate, di 88 siti nazionali e internazionali di “gambling online”, nonché di innumerevoli immobili. L’organizzazione era operativa in Europa, avendo acquisito il controllo di società in Austria, in Spagna e in Romania. A Malta venne stabilita una base operativa. Il tutto per un valore di circa 2 miliardi di euro.
Il meccanismo era rodato: presso i centri scommesse controllati dall’organizzazione era possibile giocare in contanti grazie a un conto aperto da una società di diritto maltese costituito ad hoc. Si trattava di una sorta di circuito parallelo delle scommesse.
La joint venture. A questo sistema si affiancavano i siti online gestiti da società operanti all’estero. Secondo la Procura il business era stato concordato tra le diverse cosche gravitanti nel reggino: una sorta di joint venture ’ndranghetista. Saltò all’occhio l’arresto – quando emerse l’inchiesta nel 2015 -, insieme con altre 41 persone, di due avvocati padovani – Andrea Vianello, esperto del settore, e il più giovane Marco Colapinto – accusati di fare da consulenti dell’organizzazione nella gestione della complesso funzionamento delle giocate. Tra le accuse contestate quella di associazione a delinquere, truffa ai danni dell’Agenzia delle Entrate e esercizio abusivo di attività di gioco.
Quello che allora nessuno notò è che per un anno e mezzo, tra il 2010 e il 2011 gli uffici dell’organizzazione – celata sotto le insegne della Larabet, la società che vantava regolare concessione dei Monopoli di Stato – vennero trasferiti a Padova e più precisamente nella centralissima via San Pietro 87, «un ufficio che rappresentava il punto di riferimento della rete degli affiliati distribuiti su tutto il territorio nazionale» si legge nell’ordinanza.
Quattro giovani. Agli ordini di Gennaro e Lagrotteria si installò in via San Pietro uno staff di quattro giovani provenienti dalla Calabria. E la città del Santo non sarebbe stata scelta a caso. Padovano era l’uomo di fiducia del boss dell’organizzazione Maurizio Scarabello, 49 anni, residente ad Albignasego che materialmente riscuoteva, in tutta Italia, i soldi delle giocate dalle diverse agenzie controllate dall’organizzazione e li portava alla casa madre, in Calabria. Nel suo ruolo di corriere Scarabello passò un brutto quarto d’ora, nel novembre del 2010, quella volta che la polizia di Palmi lo fermò per eccesso di velocità mentre stava raggiungendo i suoi capi a Reggio Calabria – l’azione era preordinata dalla Procura per verificare le ipotesi investigative – e vennero sequestrati oltre 150 mila euro in contanti e 440 mila euro in assegni. Padovano lo studio di consulenti del lavoro e commercialisti, la Daf servizi, sede in Corso del Popolo 21, che curava l’amministrazione della Larabet.
Socio occulto. Padovano un altro personaggio di spicco, Davide Taher. Secondo l’ipotesi della Procura di Reggio Calabria, Taher sarebbe stato uno dei soci occulti di Larabet. Taher si è costituito nel settembre del 2016 a Venezia dopo più di un anno di latitanza. Tra i due padovani, Taher e Scarabello, c’è una società immobiliare in comune, la Green Blu srl, di cui è stato amministratore prima Taher e poi Scarabello (che vanta dei precedenti per truffa). Si presume quindi una reciproca conoscenza pregressa alla comune collaborazione al business dei calabresi. L’organizzazione, nel 2011, cambio modalità operative e si appoggiò ad una licenza maltese per le giocate online e concentrò a Malta le sue attività abbandonando l’ufficio di via San Pietro.
A Reggio Calabria è in corso il dibattimento del procedimento abbreviato e quello ordinario è stato da poco inaugurato. Temiamo che non sarà quella l’occasione per scoprire i rapporti nati e consolidati in quei mesi passati da Lagrotteria e soci in via San Pietro a due passi da corso Milano.
il Mattino di Padova 24 maggio 2017
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